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sabato 12 ottobre 2013

Per la ricostruzione di una genealogia rivoluzionaria

Dopo il workshop su Riappropriazione/Autogestione/Nuovo mutualismo pubblichiamo il ws sull'esperienza della "Prima intenazionale, della Comune di Parigi" tenuto a Communia Fest - settembre 2013

Questa discussione sulla Prima Internazionale non deve essere affrontata con l’ottica del “tornare a…” per due buone ragioni. La prima è che la storia non conosce la marcia indietro e le analogie sono un importante strumento cognitivo, ma il loro uso incauto necessariamente tradisce il presente. La seconda è che sarebbe insensato scavalcare un secolo comunque caratterizzato anche da dinamiche ed eventi di liberazione. Per esempio la rivoluzione del 1917 e le conquiste del lavoro salariato in Europa, malgrado i loro esiti; per esempio le rivoluzioni anticolonialiste e le rivolte delle minoranze cosiddette razziali; il femminismo, con cui la prima delle internazionali mancò invece l’appuntamento; la nascita e l’ascesa del movimento contro lo stigma alle persone non eterosessuali.

Dovremmo invece avvicinarci a protagonisti, eventi e teorie del passato come a un lavoro funzionale alla costruzione di senso e alla rielaborazione di racconti alternativi a quelli delle formazioni sociali dominanti. Che la storia sia un’importante posta in gioco bastano a dimostrarlo due fatti, i primi che mi vengono in mente dei tanti: lo scempio dei programmi di storia fatto in Italia soprattutto dai governi di destra e i festeggiamenti nel 1989 per il bicentenario della rivoluzione francese. In quest’ultima occasione assistemmo al paradosso di un paese in festa per la celebrazione di un evento che i media presentavano poi come la radice di ogni male della contemporaneità.
La storia ci dice di chi siamo figli, di quali problemi siamo eredi, qual è la nostra genealogia. Preferisco usare questo termine invece che “tradizione”, concetto che si presta a facile anche se giusta critica e che rappresenta invece il risvolto conservatore della storia come componente del senso di sé.


La Prima Internazionale è tornata all’attenzione di coloro che desiderano cambiare il mondo ai tempi del “movimento dei movimenti” per una serie di ragioni. Perché quel movimento si è immaginato come un nuovo inizio, dopo la dissoluzione del movimento operaio del Novecento; perché i Forum sociali tenevano insieme correnti politiche assai diverse tra loro, come la prima delle internazionali; perché l’involuzione e poi la frana delle forze politiche di ispirazione sedicente marxista ha sollecitato una rivalutazione delle ideologie che contesero a Marx l’egemonia sul movimento operaio, in modo particolare il proudhonismo e l’anarchismo.

Un esempio è il libro di Mathieu Léonard La Prima internazionale edito da Alegre. Si tratta di un testo utile e ben strutturato, che narra semplicemente una vicenda complessa e che perciò consiglio caldamente di leggere. Il suo limite non è tanto nella parzialità: l’autore (anarchico) si sforza di apparire imparziale, rivolge pertinenti accuse a Marx e non risparmia Bakunin, anche se glissa troppo disinvoltamente su alcune delle sue responsabilità. Il suo limite maggiore a mio avviso è l’incomprensione delle ragioni di fondo di Marx. Ma questo è ovvio, perchè dal mio punto di vista se le avesse comprese sarebbe marxista e non anarchico.


I fatti in breve, troppo in breve…

Qualche rapidissimo accenno ai fatti, che potete però leggere più approfonditamente nel testo di Léonard. La Prima Internazionale nasce quasi per caso da un incontro tra lavoratori inglesi e lavoratori parigini in occasione dell’Esposizione Universale di Londra nell’estate del 1862. Ai lavoratori francesi ha pagato il viaggio Napoleone III per quella alternanza tra repressione e tentativi di integrazione che caratterizza in questo periodo l’atteggiamento dei governi nei confronti del movimento operaio.

L’anno dopo viene pubblicato un testo firmato dai cinque capi del sindacalismo inglese, che invitano alla solidarietà internazionalista e a cui con entusiasmo rispondono operai proudhoniani.
Il 29 settembre del 1864 in una sala concerto di Londra affollata da 2000 persone i protagonisti dell’evento si riuniscono per la prima volta; viene costituito un Consiglio generale e vengono prodotti degli statuti provvisori e una dichiarazione di principi. A Marx, che ha assistito all’assemblea senza intervenire, verrà poi affidata la redazione dei due testi.
Nasce così l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che all’inizio è un’entità fluida e poco radicata, ma che vedrà crescere la propria influenza con l’acuirsi dei conflitti di classe fino al periodo immediatamente successivo alla Comune di Parigi. Nel 1866 l’A.I.L. ha 25.000 aderenti, nel 1870 la polizia parigina dà i numeri di 811.513 per l’organizzazione nel suo complesso e di 433.785 per la Francia. La precisione dei numeri fino all’ultima unità non deve impressionare, serve probabilmente a dimostrare l’efficienza del corpo repressivo, così come la sopravvalutazione che giustifica il rafforzamento delle misure di sorveglianza e infiltrazione. Alcuni storiografi hanno ridimensionato il numero, che resta comunque elevato, Rougerie per esempio parla di 250.000 aderenti nella sola Francia. L’Internazionale conoscerà anche una dinamica di radicalizzazione, strettamente legata alla radicalizzazione del conflitto sociale in quegli anni, che culmina con la Comune di Parigi. Saranno soprattutto queste dinamiche a determinare gli equilibri tra le diverse forze presenti nell’associazione, in modo particolare il ridimensionamento della corrente più moderata, quella cooperativista e mutualista di origine proudhoniana, e la crescita di quelle più radicali nelle sue diverse componenti, anarchica, blanquista e marxista. Nella sua fase collettivista l’Internazionale non rinnegherà le pratiche di mutuo soccorso e di cooperazione, ma le inserirà in un orizzonte di abolizione delle classi e di rottura rivoluzionaria, estraneo alla filosofia di Proudhon.
In congressi o conferenze annuali le diverse tendenze si confronteranno e scontreranno e i conflitti interni, anche più della repressione, che colpisce l’Internazionale soprattutto dopo la Comune, saranno la ragione della sua disgregazione. Il congresso dell’Aja del 1872 sarà il punto culminante dell’associazione e l’inizio della fine; gli anarchici sono espulsi (costituiranno poi l’Internazionale federalista) e il centro si trasferisce a New York per sfuggire ai conflitti interni, ormai per tutti insostenibili. Il successivo congresso sarà un fiasco e il congresso di Filadelfia del 1876 rappresenterà l’estrema unzione di un’organizzazione ormai defunta.

Intellettuali e classe
A noi interessa comprendere quali problemi l’A.I.L. abbia dovuto affrontare, come li abbia risolti o non risolti e quali restino a chi si colloca in una genealogia rivoluzionaria. Con la consapevolezza che anche i problemi risolti non lo sono mai una volta per tutte e che le soluzioni possono variare secondo i contesti. Proverò a esaminarne alcuni.
Nell’Internazionale è già presente quella combinazione di intellettuali e lavoratori che caratterizzerà tutta la vicenda del movimento operaio, ma in combinazioni variabili dal punto di vista quantitativo e qualitativo. L’esigenza di coordinare, controllare, stabilire relazioni, sottoporre a critica i racconti interessati delle formazioni sociali dominanti, comprendere nei limiti del possibile la realtà ecc. comporta non solo l’esigenza di intellettuali ma anche di intellettuali che vi si dedichino come attività prioritaria della loro vita quotidiana.
L’Associazione Internazionale dei Lavoratori è caratterizzata da una combinazione specifica. L’esigenza delle società operaie di creare legami solidali a sostegno delle lotte rivendicative si incontra con le reti dei rifugiati politici presenti soprattutto in Svizzera e in Inghilterra. La suddivisione non coincide con quella tra classe e intellettuali, non solo perché molti operai sono tra i proscritti, ma anche perché c’è nella classe operaia della prima internazionale un’intelligenza diffusa legata alla struttura e all’organizzazione del lavoro che non ritroveremo nella classe operaia del Novecento. Gli uomini che dirigono e decidono sono orologiai, operai del bronzo, rilegatori, stampatori, tipografi, sarti, gioiellieri, liutai, cesellatori, intagliatori del legno ecc. Si tratta in realtà di artigiani qualificati, il cui lavoro richiede capacità di organizzazione, decisione e progettualità, di un’élite “colta e studiosa”, come la chiama Léonard, che ha nelle mani la direzione dell’Internazionale. Le caratteristiche del lavoro di questa articolazione specifica della classe si riflettono in qualche modo nei suoi comportamenti politici. Ha capacità di auto-organizzazione, può esprimere forme di lotta molto radicali come reazione al declassamento e per l’eredità del 1789, ma è spesso moderata sul piano delle rivendicazioni e paga il limite della frammentazione. Non per caso il proletariato parigino, che ha più di altri questo tipo di composizione, subisce l’influenza delle teorie di Proudhon, che Léonard cerca giustamente di riabilitare, sottraendolo ai pittoreschi insulti di Marx. Tuttavia un’attualizzazione della critica di Marx è necessaria, perché una parte del cosiddetto antagonismo propone oggi alcune idee di Proudhon e qualcuno non in modo inconsapevole.
Proudhon esprime il disagio di quegli artigiani qualificati che stanno subendo un processo di proletarizzazione e la cui aspirazione è di mantenere o recuperare la propria autonomia, sfuggendo alla condizione di salariati. Teorizzano quindi la liberazione come ritorno al lavoro autonomo, sono per la conservazione della proprietà privata, pensano di poter resistere attraverso il mutualismo e la cooperazione dei piccoli produttori, anche costruendo esperienze di credito gratuito.
Dal momento che non esiste un partito proudhoniano, né un’ortodossia proudhoniana troveremo nella classe operaia francese, che ne riflette in qualche modo le idee, settori più o meno combattivi. Ma con la radicalizzazione del conflitto di classe la sua influenza si ridurrà progressivamente, anche perché la sua ostilità nei confronti degli scioperi, e alla fine della rivoluzione stessa, contrasterà con le esperienze che una parte importante del proletariato europeo farà tra il 1867 e il 1871, gli anni delle grandi ondate di scioperi e della Comune di Parigi.
Tuttavia la capacità di una classe di agire come classe non è determinata solo dalla struttura e dall’organizzazione del lavoro. Operano nel determinarla numerosi altri fattori. Per esempio le caratteristiche delle altri classi con cui convive. L’origine contadina della classe operaia russa protagonista del 1917 facilitò la penetrazione di idee anarchiche e socialiste in un contesto in cui sopravvivevano strutture comunitarie di origine medioevale e l’esistenza prolungata dei feudi provvisori avevano radicato la convinzione che la grande proprietà fosse un abuso.
Per esempio l’esistenza o meno di differenze nazionali o cosiddette razziali. Negli Stati Uniti una gerarchizzazione razziale del lavoro salariato ne ha fortemente condizionato l’attività sindacale e i comportamenti politici. Sono determinanti inoltre le relazioni con gli intellettuali e il loro ruolo in una società, la memoria di tradizioni inventate o reali, la religione e il suo peso specifico, la natura e la vicenda delle forze politiche, la congiuntura economica eccetera. Per questo sarebbe più corretto parlare non di classe operaia, ma di classi al plurale, mettendo in rilievo le esperienze e i contesti che ne hanno condizionato le dinamiche di soggettivazione.
Bisogna guardare anche al versante degli intellettuali per comprendere le differenze di comportamento tra classi, il cui lavoro ha la medesima struttura e organizzazione. C’è tra Bakunin e Marx una polemica a cui sarebbe utile dedicare più spazio di quello qui disponibile. E’ la polemica sui “declassati”. In più di un’occasione Bakunin individua lo stato maggiore del movimento negli elementi emarginati degli strati sociali superiori. Osserva per esempio che esiste in Russia una massa enorme di persone giovani istruite e pensanti prive di collocazione e senza prospettive di carriera. E anche che c’è in Italia una gioventù ardente ed energica senza occupazione e senza via di uscita, a cui non resta altra possibilità che la rivoluzione.
Ora, se si pensa al futuro del movimento operaio, si deve dire che al di là di ogni giudizio nel merito, Bakunin vede giusto. La rivoluzione russa del 1917 e in genere tutto il movimento rivoluzionario europeo fino ai primi decenni del XX secolo sarà diretto da quelli che sono stati definiti con altro termine intellettuali “marginali” e in cui sarà decisiva la componente ebraica. A partire da Marx, figlio di un ebreo convertito e fino alle rivoluzioni degli anni Venti del Novecento, giovani provenienti dalle comunità ebraiche giocheranno un ruolo di primo piano nella costruzione del movimento operaio. Con loro dirigono il movimento rivoluzionario, oltre ovviamente alla classe auto-organizzata e a numerosi individui di provenienza operaia, studenti marginali per età e perché ancora privi di collocazione sociale, figli della piccola nobiltà decaduta, giovani borghesi senza capitali.
Ma se Bakunin vede lontano, Engels sembra vedere anche più in là. Riferendosi ai dirigenti del movimento in Italia, ne parla come di avvocati senza causa, medici senza malati e senza scienza, studenti da biliardo, commessi viaggiatori e giornalisti della stampa secondaria accomunati dalla ricerca di una carriera nella politica. In questo modo, da primi e labili segni, Engels non fa che descrivere un fenomeno con cui il movimento operaio del Novecento avrebbe dovuto fare i conti e che lo avrebbe portato alla distruzione. Un corpo separato dal punto di vista sociale e organizzativo si è costituito in stato maggiore del lavoro salariato, sovrapponendo e facendo prevalere nel tempo propri interessi e angoli di visuale su quelli della classe di cui avrebbero dovuto curare le aspettative e i bisogni. La questione della composizione di classe e del suo rapporto con l’intelligenza politica (che è cosa diversa dall’intelligenza tout court) resta aperta e non ha senso il pregiudizio che essa si risolva con le stesse modalità del Novecento. La sconfitta della costruzione che abbiamo chiamato “movimento operaio”, la messa in concorrenza della forza lavoro sul piano globale, lo spostamento degli assi geopolitici, i mutamenti nella struttura e nell’organizzazione del lavoro cambiano ovviamente i termini del problema e ci obbligano a guardarla con una sia pur prudente e parziale rinuncia a paradigmi precostituiti.
Noi prendiamo atto che i processi di proletarizzazione hanno assunto dimensioni senza precedenti per una serie di ragioni per cui non ho né il tempo né lo spazio di soffermarmi. La crisi contribuisce poi a declassare gran parte dell’ex-ceto medio e marginalizza una gioventù non ancora del tutto disperata perché in Italia può ancora in parte usufruire delle conquiste delle vecchie generazioni, anch’esse per altro in via di demolizione.




L’esame sociologico della composizione di classe non può essere il punto di partenza delle nostre deduzioni; sono le lotte e i movimenti a spiegarci quali articolazioni di questa società proletarizzata e immiserita hanno la capacità di agire come classe e in quale rapporto con l’intelligenza politica.

In Italia (e non solo in Italia, ma orizzonti troppo ampi non sarebbero opportuni) sono esistite negli ultimi anni lotte visibili e invisibili e queste ultime sono state la maggioranza.
I grandi cortei sindacali e le rituali manifestazioni d’autunno, i raduni elettorali e le altre sempre più rare occasioni in cui il cosiddetto popolo di sinistra si è ritrovato, sono stati la parte visibile per la semplice ragione che hanno direzione e organizzazione. Ma per il medesimo motivo questa parte scompare subito dopo dalla scena politica e la sua apparizione è subito vanificata dalle scelte dei gruppi dirigenti. Esistono poi conflitti, ricerche di soluzioni, frammenti di intellettuale collettivo che comprendono anche il proletariato di fabbrica ma che si estendono a grande parte della società. Si tratta delle lotte di chi non trova, e spesso ormai nemmeno cerca, un punto d’appoggio negli strumenti tradizionali del movimento operaio del Novecento, sindacati e partiti. Questi attori del conflitto di classe sono stati poche volte visibili per la loro frammentarietà, ma hanno avuto diffusione capillare e sono stati fabbriche in via di smantellamento, cittadini/e in movimento per la difesa del loro ambiente (sembra che si sia trattato di decine di migliaia di gruppi), occupazione di teatri, reti di precari della scuola, gruppi di economisti dediti alla pedagogia della crisi, apparizioni del movimento femminista, iniziative di mutuo soccorso…
E’ dall’insieme di queste lotte che si può cominciare a dedurre la composizione di classe, se al termine non si dà un significato solo sociologico, ma anche politico. E quale sia la relazione attuale tra intelligenza e proletariato. Si tratta di un proletariato in cui la classe operaia di fabbrica, pur essendo una sua importante articolazione, non esercita più la forza centripeta degli anni Settanta e accanto alla quale agiscono settori più capaci di auto-organizzarsi, di costruire discorsi, di garantire direzione. La topografia delle lotte rimanda poi alla descrizione sociologica della cosiddetta composizione di classe, su cui hanno agito i cambiamenti nella struttura e nell’organizzazione del lavoro, la sussunzione alle logiche del capitale di lavori un tempo autonomi, la proletarizzazione dell’ex-ceto medio, l’intellettualizzazione di numerosi compiti e mansioni.
Da queste considerazioni mi sembra che non si possa dedurre nulla di definitivo: non c’è un nuovo soggetto politico-sociale capace di assolvere lo stesso ruolo svolto dalla classe operaia di fabbrica e nello stesso tempo non ci sono nemmeno valide ragioni per pensare che essa tornerà a svolgerlo e per presidiare i luoghi della sconfitta in attesa della riscossa. Perché qualcosa possa essere detto bisogna che una o più articolazioni di questo proletariato riporti qualche importante vittoria, impedita finora dalla frammentazione delle lotte, dalla fluidità del corpo sociale e dalla volatilità dei movimenti. Non basta nemmeno teorizzare che il lavoro salariato ha incorporato, almeno in parte, l’intelligenza che nel Novecento è appartenuta soprattutto all’intellettuale marginale o piccolo-borghese: questo è anche vero ma come argomento ancora insufficiente. E’ difficile immaginare l’identificazione tra sociale e politico, senza la mediazione di una sorta di volontariato della politica, che abbia accumulato esperienze e competenze. La complessificazione ulteriore conosciuta dalla società negli ultimi decenni e l’estendersi dei processi di intellettualizzazione impongono conoscenze specialistiche anche nel campo dell’intelligenza politica. I dubbi sulla possibilità di un partito rivoluzionario di svolgere lo stesso ruolo svolto nel Novecento, sia pure in occasioni rarissime, non derivano dalla considerazione che esso è troppo rispetto alla spontaneità delle masse, ma che è troppo poco rispetto alla complessità dell’organizzazione sociale. I partiti politici legati al padronato non hanno problemi in proposito: poiché non sono loro a decidere il che fare non devono capire il presente e prefigurare il futuro. Il compito che hanno è la competizione tra partiti nel ruolo di imbonitori e illusionisti, in funzione di un simulacro di democrazia.
Mi pare che l’attuale stato delle cose in Italia giustifichi un certo agnosticismo e un’attitudine sperimentale. Non siamo noi sulla base della ripetizione di modelli nati in altri contesti o della necessità di celebrare presunti nuovi inizi a decidere quali forme organizzative si daranno gli attori delle lotte. A noi toccano tre compiti: accompagnare le lotte e comprenderne le logiche interne, cercando di indirizzarle verso forme democratiche e reciprocamente solidali; comprendere nei limiti del possibile il presente e fare qualche proposta per il futuro; non perdere la memoria della genealogia rivoluzionaria, senza smettere per questo di rivederla e criticarla.

Il conflitto tra Marx e Bakunin
L’Internazionale fu luogo di accesi conflitti, che alla fine ne determinarono la disgregazione o almeno ne furono la ragione principale, anche se non unica. Vi avevano aderito i mazziniani, le Trade Unions, operai cresciuti politicamente alla scuola di Proudhon, quarantottardi, fourieristi, balnquisti, anarchici e marxisti. A dire il vero un primo nucleo marxista si creò proprio nel corso della vita dell’A.I.L. per il ruolo che Marx si era abilmente conquistato nel Consiglio generale.
Nei conflitti ovviamente si mescolano gli interessi diversi dei diversi settori del proletariato; progetti e teorie di intellettuali di origine operaia o borghese, che in qualche modo li riflettono; le reazioni a vittorie e sconfitte nella guerra di classe che si riaccende dopo la depressione seguita alla sconfitta del 1848. “La disputa Marx-Bakunin è evidentemente al centro di questa storia” scrive Léonard e la racconta a suo modo. Dal momento che ho preso molto tempo e spazio sul tema del rapporto tra composizione di classe e intelligenza politica, sono costretta a comprimere il racconto di quella disputa, su cui ho idee abbastanza diverse da quelle di Léonard.
Preciso infine che la mia non è una critica dell’anarchismo, ma del suo padre fondatore. Nei decenni successivi alla fine dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e nel corso del Novecento l’anarchismo, come il marxismo, si è diviso in scuole e in pratiche diverse, alcune delle quali non molto distanti dal marxismo rivoluzionario e antiburocratico.

L’organizzazione rivoluzionaria
Se si fa la tara di intrighi, insulti e minacce, emergono dalla polemica soprattutto due questioni: il modo di concepire l’organizzazione e il suo rapporto con il “popolo”, come lo chiama Bakunin o la “classe”, come la chiama Marx; la funzione del potere politico e quindi dello Stato.
La contraddittorietà del testo di Léonard, che da una parte continua a presentare Bakunin come il campione dell’antiautoritarismo e dall’altra non nasconde (almeno in parte) testi e vicende che dimostrano il contrario, è forse una contraddizione dello stesso rivoluzionario russo, anche se il sospetto di Marx di un suo continuo doppio gioco non sembra privo di fondamento, tanto che Léonard stesso parla di “slealtà”. Ma procediamo con ordine.
La tesi di un Bakunin antiautoritario può trovare conferma in un testo importante della storia dell’Internazionale, una circolare del congresso della Federazione del Giura (novembre 1871), in cui gli anarchici accusano il Consiglio generale di essersi trasformato in un’organizzazione gerarchica e scrivono che l’Internazionale “embrione della futura società umana, è tenuta a essere, fin da ora, l’immagine fedele dei nostri principi di libertà e di federazione, e a respingere dal suo seno ogni principio tendente all’autorità, alla dittatura.” L’obiezione di Marx ed Engels è sensata: la differenza tra la società attuale e la società futura – dicono pressappoco – è che non esisterà nella seconda quel che esiste nella prima cioè polizie, tribunali ed eserciti. Tuttavia, dopo l’esperienza del comunismo stalinista, è difficile non vedere un nucleo di verità nell’affermazione, una volta fatta la tara dell’utopia. Ma davvero questa idea, un po’ ingenua ma al fondo sana, riflette la concezione che Bakunin ha dell’organizzazione rivoluzionaria? Troppe cose dicono di no.
In realtà Bakunin opera nell’Internazionale con una logica di tipo entrista: ha aderito all’associazione solo nel 1868, quando l’influenza di Marx sul consiglio generale è ormai consolidata, e si trova perciò nel ruolo di oppositore interessato a rivendicare i più ampi spazi di democrazia. Per quel che riguarda invece la propria organizzazione, quella con cui ha aderito all’Internazionale e che continua a mantenere in vita, il discorso cambia radicalmente.
A partire dal 1864, prima e durante la sua permanenza nell’associazione, Bakunin crea l’Alleanza della democrazia socialista, poi l’Alleanza dei rivoluzionari socialisti e infine la Fratellanza internazionale in una dinamica di continuità tra un’organizzazione e l’altra. Gli statuti dell’Alleanza mostrano un’organizzazione strutturata in tre livelli, secondo il modello mistico di avvicinamento per gradi alla verità. Il livello più alto è l’unico che conosca la struttura dell’organizzazione: l’articolo 15 recita infatti che in nessun caso il secondo livello deve sospettare dell’esistenza del primo. A quest’ultimo è affidata la direzione dell’associazione che non può esercitare ovviamente alcun serio controllo su un gruppo dirigente invisibile. Anzi il secondo livello deve essere organizzato in modo tale da non potersi mai sottrarre alla direzione del primo e bisogna che al comitato centrale permanente siano inviati solo uomini assolutamente fedeli al gruppo dirigente. Più volte poi Bakunin fa riferimento ai Gesuiti, nella cui organizzazione vede un modello di fedeltà e obbedienza “perinde ac cadaver” da prendere a esempio dello stile di lavoro della sua “piccola chiesa invisibile”(Léonard).
L’idea che Bakunin ha del rapporto tra organizzazione rivoluzionaria e classe è, almeno sul piano teorico, l’opposto di quella di Marx. Ritiene autoritario ogni tipo di pedagogia rivoluzionaria, perché “il popolo sa da sé e meglio di noi ciò di cui ha bisogno” e non deve essere né istruito né organizzato, ma propone una direzione chiusa, obbediente e invisibile. Il commento di Marx ed Engels è assolutamente pertinente: come si vede, la dottrina dell’Alleanza è anarchia dal basso e disciplina dall’alto. E’ il contrario della pratica dell’auto-organizzazione, per cui un gruppo politico aperto e democratico costruisce le ragioni della sua esistenza partecipando e contribuendo alla costituzione della classe in soggetto collettivo con propri e autonomi strumenti organizzativi.
Léonard commenta e critica. Nota quanto sia stravagante il disegno di Bakunin di imporre alla società la dittatura irresponsabile dei più rivoluzionari e nello stesso tempo di farsi promotore di una società democratica. E ritiene che il suo modo di agire si scontri con la prassi trasparente di una classe operaia matura e organizzata, che cerca di emergere con l’Internazionale. Eppure continua a contrapporre al Marx autoritario e statalista l’antiautoritarismo di Bakunin.
In realtà Marx nella sua lotta contro gli anarchici commette scorrettezze e atti di autoritarismo che non corrispondono, però, ad alcuna organica visione dell’organizzazione rivoluzionaria, ma riflettono l’esasperazione per comportamenti che ritiene ormai gravemente dannosi per l’Internazionale. Per comprendere il suo stato d’animo bisognerebbe aprire una parentesi troppo lunga, in modo particolare sull’affare Necaev, su cui Léonard elegantemente glissa, limitandosi a ricordare che Bakunin negò di aver scritto il Catechismo rivoluzionario e dimenticando che esistono numerosi altri testi in lingua russa, di cui non negò invece mai la paternità, e che dicono più o meno le stesse cose o che del catechismo sono i corollari. Tutta la vicenda della federazione russa dell’Alleanza, che si concluse con un processo per l’assassinio di un giovane aderente che aveva espresso la volontà di abbandonare l’associazione, spiegherebbe ampiamente la volontà del Consiglio generale di liberarsi di Bakunin. Ma evidentemente non è possibile raccontarla. Da quella vicenda emerge che in Russia agiva a nome di una delle componenti dell’Internazionale una setta che teorizza la “distruzione spietata”, la “distruzione pura”, la “pandistruzione universale”; racconta la storia di un potentissimo comitato segreto che tutto vede e tutto può; minaccia di morte i rivoluzionari che non ne condividono i deliri estremistici; teorizza la “”compromissione” con discorsi simili a quelli che faranno ai nostri giorni alcuni settori dell’anarchismo estremo a proposito della pratica di coinvolgere manifestanti pacifici negli scontri con le forze di repressione; ammazza i militanti che decidono di uscire dal gruppo.
Una domanda è a questo punto legittima: se le cose stanno così, allora perché sono stati i partiti di origine marxista a burocratizzarsi e non il movimento anarchico? Come sempre, l’individuazione dei nessi di causa ed effetto è più complessa di quanto di pensi. La spiegazione della vulgata anarchica è semplice: Marx autoritario e statalista ha prodotto un movimento operaio in qualche modo a sua immagine e somiglianza e la stessa cosa, rovesciata, vale per l’antiautoritario e antistatalista Bakunin. Mi sembra di aver cominciato a dimostrare che le cose non stanno affatto così. La spiegazione invece è che nella lotta per la conquista dell’egemonia sul movimento operaio Marx ha vinto per una serie di circostanze in parte certo casuali, ma anche per lo straordinario valore della sua opera teorica e di commentatore delle vicende politiche. Lo stesso Léonard non può fare a meno di definire “folgorante” il testo con cui Marx commenta la comune di Parigi, “La guerra Civile in Francia”. Saranno così i progetti, le teorie e le aspettative di Marx a battere il naso contro la realtà, la loro parte di utopia a scontrarsi con la durezza dei fatti.

Il potere secondo Marx e Bakunin
Anche più complessa è l’altra materia del contendere, la questione cioè del potere e dello Stato. Il rifiuto dello Stato, non di questo o di quello Stato, ma dello Stato tout court, riflette in Francia dove vivrà l’esperienza della Comune, prima di tutto il modo di sentire di quegli artigiani qualificati per cui lo Stato non significa altro che tasse e repressione. E di fatto non significa altro, perché non esiste ancora, come nota Léonard, “la mano sinistra dello Stato” quella che crea sistemi sanitari pubblici, garantisce pensioni e indennità, trasporti a basso costo, istruzione gratuita e obbligatoria ecc. Insomma tutto ciò che il liberismo si è messo d’impegno a demolire con la collaborazione delle caste politiche che, in Italia forse più che altrove, l’hanno trasformato in feudi propri e centri di spreco e corruzione. Per Proudhon e Bakunin la soluzione è semplice. L’obiettivo è scrollarsi di dosso lo Stato, per il primo attraverso un associazionismo che progressivamente gli toglie terreno; per Bakunin con la rivoluzione che demolisce, distrugge e annulla. Marx ritiene invece che la questione del potere politico non possa essere risolta con la pura e semplice cancellazione del problema, non è astensionista e si interroga sulle forme politiche del potere operaio. Non pensa come Blanqui alla rivoluzione come colpo di mano di una piccola minoranza che si impossessa del potere per fare alla fine giustizia; ragiona sempre in termini di auto-organizzazione, anche quando parla di partito che per lui rappresenta solo la parte più consapevole e attiva della classe.
Léonard riprende la tesi di un Marx convertito all’anarchismo dalla forza di persuasione dell’evento della Comune, ma si tratta di una conclusione troppo di parte. O almeno anche condivisibile, purché si ammetta che c’è una conversione, ma meno consapevole ed elaborata (e quindi senza conseguenze sul piano delle pratiche e delle teorie), anche dall’altra parte.
In realtà la Comune non dà ragione né a Marx, né a Bakunin perché le forme politiche nuove non nascono dal cranio di qualcuno, ma dalle dinamiche sociali e dai loro protagonisti. La Comune comincia l’opera di demolizione delle vecchie strutture statali, ma ne costruisce di nuove. In un testo pubblicato tra i rapporti e i documenti del Congresso dell’Aia “L’Alleanza della democrazia socialista e l’Associazione internazionale dei lavoratori” (1872), Marx ed Engels citano il piano elaborato da Bakunin per la rivolta di Lione, facendo notare che di fatto creare una federazione permanente e un consiglio, delegare deputati provvisti di mandati imperativi e revocabili, organizzare comitati esecutivi per ogni ramo dell’amministrazione, estendere queste strutture ad altre province ecc. significa nei fatti delineare la struttura di uno Stato nuovo. Soprattutto se si tiene conto che questi organismi per fare qualsiasi cosa devono essere investiti di qualche potere e sostenuti dalla forza pubblica. I delegati dovranno poi necessariamente eleggere un organismo esecutivo, che inevitabilmente sarà investito da un carattere di autorità, che le esigenze stesse della lotta accentuerebbero sempre di più. Abbiamo quindi ricostruito – scrivono Marx ed Engels – tutti gli elementi dello “Stato autoritario”, come Bakunin del resto finisce per ammettere, quando definisce questo tipo di organizzazione del potere “Stato rivoluzionario nuovo” (art.8).
Sulla scia di Marx che riflette sulla Comune si collocano il Lenin di “Stato e rivoluzione”; Trotzky che già nel 1905 vede nell’auto-organizzazione operaia sovietica la struttura portante del nuovo Stato operaio; la Quarta Internazionale per cui la democrazia socialista coincide con l’auto-organizzazione permanente del lavoro salariato, al cui interno convive una pluralità di partiti che rappresentano gli interessi diversi e le diverse culture del proletariato.
Tornare alla Prima Internazionale non sarebbe utile anche perché le esperienze del Novecento dicono ovviamente molto di più. La Comune ha infatti vita breve e il seguito della vicenda si svolgerà altrove. Non si tratta quindi di riscoprire l’organizzazione permanente, che è stata già teorizzata, anche se ovviamente bisogna curarne il rilancio sul piano delle teorie e delle pratiche. Si tratta di inserire nel bilancio critico del Novecento gli interrogativi sul carattere transitorio dell’auto-organizzazione, al di là delle teorie e dei progetti dei rivoluzionari. Rispondere che la causa sono stati partito e Stato burocratizzati significa rovesciare i nessi di causa ed effetto.
Vale però la pena di ricordare l’obiezione liberale alla democrazia diretta e al proposito leninista del governo della cuoca, che dice pressappoco così: dal momento che proponete un tipo di democrazia impossibile, alla fine non vi resta in mano nessun modello di democrazia possibile.
Ma è vero che la democrazia diretta è un’illusione, che la cuoca non può governare e nello stesso tempo continuare il suo mestiere di cuoca?
Questa idea deriva da una convinzione che Eugenio Scalfari esprime bene in un editoriale di Repubblica del mese di settembre 2013, quando scrive citando Friedrich Hebbel che la massa non fa progressi “Gli individui possono cambiare ed evolvere, le masse no…” Tutta l’esperienza del Novecento dimostra il contrario: come gli individui, anche masse di persone possono subire evoluzioni e involuzioni per i cambiamenti nelle loro condizioni di vita, per i livelli di scolarità, per il tipo di mansioni che svolgono nel loro lavoro e per le esperienze politiche che fanno.
Ernest Mandel parlò di esercitazione al potere e forse questa è una delle tracce lasciate dalle pratiche migliori del Novecento e su cui dovremmo cominciare a ragionare.

di Lidia Cirillo
da CommuniaNet

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