Pagine

giovedì 5 dicembre 2013

La flessibilità, lavoro da precari/e

"Il lavoro, come tutte le altre cose che si comprano e si vendono, e la cui quantità può venire aumentata o diminuita, ha il suo prezzo naturale e il suo prezzo di mercato. Il prezzo naturale del lavoro è il prezzo necessario a porre i lavoratori, nel suo complesso, in condizione di vivere e di riprodursi, senza aumenti né diminuzioni" (D.Ricardo, 1817). Pur partendo dalla convinzione che "un uomo deve sempre vivere del suo lavoro e il suo salario deve essere almeno sufficiente a mantenerlo", Adam Smith e altri economisti liberisti nell'800, agli albori del sistema capitalistico e in piena rivoluzione industriale, avevano già affermato che il criterio di fissazione dei salari doveva essere "lasciato alla reale e libera concorrenza di mercato, e non essere mai controllato per legge".
Qualche decennio dopo a questa idea di mercificazione del lavoro ha risposto K. Marx con il concetto di plusvalore, secondo il quale è sempre il lavoratore a creare il valore di scambio, di cui poi il capitalista si appropria. Marx aveva ben previsto una corsa al ribasso dei salari reali dovuta alla loro contrazione, poiché i margini di guadagno legati all'aumento della produttività dei lavoratori sono sempre più estratti sotto forma di profitto, piuttosto che essere distribuiti tra chi li ha realmente prodotti mediante un aumento dei salari stessi.
Questa critica all'economia di mercato ha ispirato lotte, rivolte, scioperi che hanno innervato solidarietà, mutuo soccorso tra i lavoratori, cooperazione sociale e sindacale. In molti angoli del pianeta, soprattutto in Europa, nel secondo dopoguerra la classe operaia e il proletariato industriale hanno inciso fortemente sulle scelte politiche di partiti e sindacati (socialdemocratici e laburisti) fino ad arrivare a conquistare una serie di tutele e garanzie:
  • a livello di mercato del lavoro: impegno dei governi per la "piena occupazione", garantendo opportunità di guadagnarsi da vivere;
  • occupazionali: protezione dal licenziamento arbitrario, norme sulle modalità di assunzione e licenziamento, addebitamento dei costi al datore di lavoro in caso di mancato rispetto delle norme;
  • sul posto di lavoro: divieto di ricorrere a manodopera non adeguatamente qualificata, opportunità di mobilità "verso l'alto" in termini sia di reddito che di avanzamento di carriera;
  • di sicurezza sul lavoro: introduzione di norme sulla salute e la sicurezza per proteggersi da incidenti, da malattie, con limiti al lavoro notturno per le donne, all'orario di lavoro per permettere una dignitosa vita sociale;
  • di riproducibilità delle competenze: opportunità di acquisire ed approfondire competenze tramite percorsi di apprendistato, formazione professionale, ecc. insieme alla possibilità di applicarle;
  • di reddito sia dirette che indirette: indicizzazione dei salari, protezione sociale con forme di reddito minimo, adeguato e stabile nel tempo, integrazione dei redditi bassi, fiscalità progressiva per ridurre le disuguaglianze;
  • di rappresentanza: ottenimento del diritto di sciopero insieme a spazi, tempi durante l'orario di lavoro per avere voce collettiva tramite l'esistenza di sindacati indipendenti.


In contemporanea negli anni settanta del secolo scorso, utilizzando un'ulteriore crisi ciclica del capitalismo, i detentori del potere economico hanno fatto proprio il cosiddetto modello di società “neoliberista”. Forti delle le idee e studi di un gruppo di economisti ispirati dai liberisti del secolo precedente e rafforzati, al limite dell'esaltazione, da convinzioni ideologiche contro lo Stato, anche il mondo politico occidentale ha iniziato a sostenere che crescita e sviluppo e, quindi benessere, dipendono dalla competitività del mercato.
Tra queste politiche uno dei precetti base è stato quello di perseguire la "flessibilità del mercato del lavoro", fino a renderlo il più "liquido" possibile: ossia far fluttuare un crescente numero di lavoratori tra posizioni lavorative differenti, facendogli percepire una modesta remunerazione, alternando periodi con contratti stabili a periodi di atipicità e di intermittenza occupazionale, in assenza di qualsivoglia supporto sociale (welfare e ammortizzatori). Uno stato permanente di provvisorietà delle persone dipendente sempre più dalla fluidità dei capitali alla ricerca di investimenti nell'economia globalizzata.
Per i neo-liberisti alla ribalta l’adozione di un tale modello di mercato del lavoro era inevitabile altrimenti le conseguenze sarebbero state perdita di produzione ed investimenti verso paesi laddove i costi, non solo della forza lavoro, sono inferiori, con una conseguente mancanza di crescita per l'occidente sviluppato.
Con questa vulgata si è dovuto rendere il lavoro subordinato sistematicamente meno sicuro, poiché questo, a loro dire, era il prezzo da pagare per salvaguardare gli stessi posti di lavoro. Ma con quali conseguenze per i lavoratori e le lavoratrici? Ha inizio quel processo legislativo in tutta Europa che porta alla istituzionalizzazione del precariato, come prodotto del liberismo economico attraverso la flessibilità:
  • salariale: adeguare i salari all'andamento della domanda, soprattutto al ribasso;
  • occupazionale: lasciare mano libera alle imprese, senza oneri sui propri livelli occupazionali; quindi meno tutele dal licenziamento;
  • sul posto di lavoro: libertà per le imprese al proprio interno di trasferire e cambiare d'incarico i lavoratori in base alle esigenze organizzative dell'azienda e abbattendo costi di gestione;
  • di competenze: adeguare senza costi e tempi lunghi le competenze richieste dall'andamento della domanda di mercato.
Il processo di transizione da un "mercato del lavoro tutelato" ad uno "flessibile e liquido" ha portato allo smantellamento delle garanzie a tutela dei lavoratori, insieme ad una progressiva privazione dei servizi e proventi con cui integrare il proprio salario: istruzione pubblica per i propri figli (mensa, asili nido, libri di testo, borse di studio), trasporto, cure sanitarie ospedaliere pubbliche e gratuite. Quello che comunemente è chiamato il welfare state ormai sotto attacco delle politiche di privatizzazione e austerità richiesti, giustificate dai governi nazionali come sacrifici per rimediare alla crisi del debito pubblico. 
 
Oggi per chi è precario/a la difficoltà a crearsi un'identità fondata sul lavoro, a munirsi di spazi e tempi in cui creare solidarietà tra lavoratori e lavoratrici, percorsi di comprensione della propria condizione collettiva e non solo individuale, è una scommessa da giocarsi per non subire passivamente forme di sfruttamento, discriminazioni, ricatti sui posti di lavoro.
L'economia di mercato globalizzata e la precarizzazione del mercato del lavoro sta producendo una composizione di classe parimenti classista, se non ancora con maggiori disuguaglianze sociali rispetto ai tempi in cui si sono rivendicati ed ottenuti nel corso del '900 diritti universali a prescindere dal proprio ceto sociale di provenienza.
Se nei luoghi di lavoro dominano la paura e la rassegnazione a causa del rischio disoccupazione, della precarietà e delle trasformazioni nell'organizzazione aziendale è necessario costruire una cultura della solidarietà, della mobilitazione anche tra i precari e le precarie. E' necessario combinare azioni sui luoghi di lavoro, nel territorio, vertenze collettive, (auto)formazione ed autorganizzazione, che vedano i lavoratori e le lavoratrici protagoniste/i di forme sindacali orientate al conflitto, in grado di stimolare la partecipazione democratica dal basso. Un percorso in cui si possa iniziare a rivendicare e conquistare diritti, reddito e lavoro dignitoso.
Rivoltare la precarietà è una scommessa per cambiare il mondo, consapevoli che nessun altro lo farà al posto nostro...noi precari e precarie, migranti, operai, studenti.

da bollettino n.0 di "Rivoltiamo la precarietà"

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.