"Il
lavoro,
come tutte le altre cose che si comprano e si vendono, e la cui
quantità può venire aumentata o diminuita, ha il suo prezzo
naturale e il suo prezzo di mercato. Il prezzo naturale del lavoro è
il prezzo necessario a porre i lavoratori, nel suo complesso, in
condizione di vivere e di riprodursi, senza aumenti né diminuzioni"
(D.Ricardo, 1817). Pur
partendo dalla convinzione che "un
uomo deve sempre vivere del suo lavoro e il suo salario deve essere
almeno sufficiente a mantenerlo",
Adam Smith e altri economisti liberisti nell'800, agli albori del
sistema capitalistico e in piena rivoluzione industriale, avevano già
affermato che il criterio di fissazione dei salari doveva essere
"lasciato alla reale e libera
concorrenza di mercato, e
non essere mai controllato per legge".
Qualche
decennio dopo a questa idea di mercificazione del lavoro ha risposto
K. Marx con il concetto di
plusvalore, secondo il quale è
sempre il lavoratore a creare il valore di scambio, di cui poi il
capitalista si appropria. Marx aveva ben previsto una corsa al
ribasso dei salari reali dovuta alla loro contrazione, poiché i
margini di guadagno legati all'aumento della produttività dei
lavoratori sono sempre più estratti sotto forma di profitto,
piuttosto che essere distribuiti tra chi li ha realmente prodotti
mediante un aumento dei salari stessi.
Questa
critica all'economia di
mercato
ha ispirato lotte, rivolte, scioperi che hanno innervato solidarietà,
mutuo soccorso tra i lavoratori, cooperazione sociale e sindacale.
In molti angoli del pianeta, soprattutto in Europa, nel secondo
dopoguerra la classe operaia e il proletariato industriale hanno
inciso fortemente sulle scelte politiche di partiti e sindacati
(socialdemocratici e laburisti) fino ad arrivare a conquistare una
serie di tutele
e garanzie:
- a livello di mercato del lavoro: impegno dei governi per la "piena occupazione", garantendo opportunità di guadagnarsi da vivere;
- occupazionali: protezione dal licenziamento arbitrario, norme sulle modalità di assunzione e licenziamento, addebitamento dei costi al datore di lavoro in caso di mancato rispetto delle norme;
- sul posto di lavoro: divieto di ricorrere a manodopera non adeguatamente qualificata, opportunità di mobilità "verso l'alto" in termini sia di reddito che di avanzamento di carriera;
- di sicurezza sul lavoro: introduzione di norme sulla salute e la sicurezza per proteggersi da incidenti, da malattie, con limiti al lavoro notturno per le donne, all'orario di lavoro per permettere una dignitosa vita sociale;
- di riproducibilità delle competenze: opportunità di acquisire ed approfondire competenze tramite percorsi di apprendistato, formazione professionale, ecc. insieme alla possibilità di applicarle;
- di reddito sia dirette che indirette: indicizzazione dei salari, protezione sociale con forme di reddito minimo, adeguato e stabile nel tempo, integrazione dei redditi bassi, fiscalità progressiva per ridurre le disuguaglianze;
- di rappresentanza: ottenimento del diritto di sciopero insieme a spazi, tempi durante l'orario di lavoro per avere voce collettiva tramite l'esistenza di sindacati indipendenti.
In
contemporanea negli anni settanta del secolo scorso, utilizzando
un'ulteriore crisi ciclica del capitalismo, i detentori del potere
economico hanno fatto proprio il cosiddetto modello
di società “neoliberista”.
Forti delle le idee e studi di un gruppo di economisti ispirati dai
liberisti del secolo precedente e rafforzati, al limite
dell'esaltazione, da convinzioni ideologiche contro lo Stato, anche
il mondo politico occidentale ha iniziato a sostenere che crescita e
sviluppo e, quindi benessere, dipendono dalla competitività del
mercato.
Tra
queste politiche uno dei precetti base è stato quello di perseguire
la "flessibilità
del mercato del lavoro",
fino a renderlo il più "liquido"
possibile: ossia far fluttuare un crescente numero di lavoratori tra
posizioni lavorative differenti, facendogli percepire una modesta
remunerazione, alternando periodi con contratti stabili a periodi di
atipicità e di intermittenza occupazionale, in assenza di
qualsivoglia supporto sociale (welfare e ammortizzatori). Uno stato
permanente di provvisorietà delle
persone dipendente sempre più dalla fluidità dei capitali alla
ricerca di investimenti nell'economia globalizzata.
Per
i neo-liberisti alla ribalta l’adozione di un tale modello di
mercato del lavoro era inevitabile altrimenti le conseguenze
sarebbero state perdita di produzione ed investimenti verso paesi
laddove i costi, non solo della forza lavoro, sono inferiori, con una
conseguente mancanza di crescita per l'occidente sviluppato.
Con
questa vulgata si è dovuto rendere il lavoro subordinato
sistematicamente meno sicuro, poiché questo, a loro dire, era il
prezzo da pagare per salvaguardare gli stessi posti di lavoro. Ma
con quali conseguenze per i lavoratori e le lavoratrici?
Ha inizio quel processo legislativo in tutta Europa che porta alla
istituzionalizzazione del precariato, come prodotto del liberismo
economico attraverso la flessibilità:
- salariale: adeguare i salari all'andamento della domanda, soprattutto al ribasso;
- occupazionale: lasciare mano libera alle imprese, senza oneri sui propri livelli occupazionali; quindi meno tutele dal licenziamento;
- sul posto di lavoro: libertà per le imprese al proprio interno di trasferire e cambiare d'incarico i lavoratori in base alle esigenze organizzative dell'azienda e abbattendo costi di gestione;
- di competenze: adeguare senza costi e tempi lunghi le competenze richieste dall'andamento della domanda di mercato.
Il
processo di transizione da un "mercato del lavoro tutelato"
ad uno "flessibile e liquido"
ha portato allo smantellamento
delle garanzie a tutela dei lavoratori, insieme ad una progressiva
privazione dei servizi e proventi
con cui integrare il proprio salario: istruzione pubblica per i
propri figli (mensa, asili nido, libri di testo, borse di studio),
trasporto, cure sanitarie ospedaliere pubbliche e gratuite. Quello
che comunemente è chiamato il welfare
state ormai
sotto attacco delle politiche di privatizzazione e austerità
richiesti, giustificate dai governi nazionali come sacrifici per
rimediare alla crisi del debito pubblico.
Oggi
per chi è precario/a la difficoltà a crearsi
un'identità fondata sul lavoro, a munirsi di spazi e tempi in cui
creare solidarietà tra lavoratori e
lavoratrici, percorsi di comprensione della propria condizione
collettiva e non solo individuale, è una scommessa da giocarsi per non subire
passivamente forme di sfruttamento, discriminazioni, ricatti sui
posti di lavoro.
L'economia
di mercato globalizzata e la precarizzazione del mercato del lavoro
sta producendo una composizione di classe parimenti classista, se non
ancora con maggiori disuguaglianze sociali rispetto ai tempi in cui
si sono rivendicati ed ottenuti nel corso del '900 diritti universali
a prescindere dal proprio ceto sociale di provenienza.
Se
nei luoghi di lavoro dominano la paura e la rassegnazione a causa del
rischio disoccupazione, della precarietà e delle trasformazioni
nell'organizzazione aziendale è necessario costruire una cultura
della solidarietà,
della mobilitazione anche tra i
precari e le precarie. E' necessario
combinare azioni sui luoghi di lavoro, nel territorio, vertenze
collettive, (auto)formazione ed autorganizzazione, che vedano i
lavoratori e le lavoratrici protagoniste/i di forme sindacali
orientate al conflitto, in grado di stimolare la partecipazione
democratica dal basso. Un percorso
in cui si possa iniziare a rivendicare e conquistare diritti, reddito
e lavoro dignitoso.
Rivoltare
la precarietà è una scommessa per
cambiare il mondo, consapevoli che nessun altro lo farà al posto
nostro...noi precari e precarie, migranti, operai, studenti.
da bollettino n.0 di "Rivoltiamo la precarietà"
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