1. Non poteva essere altrimenti. Il sipario su Lampedusa è calato.
Si riaprirà alla prossima strage, alla prossima discriminazione, alla
prossima rivolta. Nel frattempo a differenza di chi considera ancora i
migranti come dei poveracci, delle vittime impotenti, noi continuiamo a
percorrere la strada delle lotte, della presa di coscienza e
dell'autorganizzazione dei e delle migranti.
Ma non si possono tralasciare le mosse della politica istituzionale,
che si è rifatta il trucco dopo gli anni di Maroni ministro degli
interni e Berlusconi presidente del consiglio. I fatti, le minacce di
sanzioni da parte delle istituzioni europee, le diverse forme di
protesta dei migranti che si susseguono e arrivano sulle prime pagine
dei media mainstream, hanno costretto il management
politico-umanitario a cambiare tono senza tuttavia mettere in
discussione le attuali leggi sull'immigrazione. Sono aumentati
solo l'ipocrisia, gli appelli all'aiuto caritatevole e i progetti di
nuovi controlli militari del Mediterraneo. L'attuale gestione delle
politiche migratorie non si ferma solo all'aspetto della cosiddetta
sicurezza e dell'ordine pubblico, fa uso di funerali di stato, di
simbologie istituzionali e religiose ed altri effetti mediatici
finalizzati a colpire le coscienze giusto il tempo di un servizio
giornalistico. Si susseguono le solite interrogazioni parlamentari, le
visite nei centri di detenzione. Addirittura un parlamentare del Pd,
forse ignaro del partito a cui appartiene, si rinchiude nel Centro di
accoglienza di Lampedusa, contribuendo ad alimentare il depistaggio in
corso.
Nessuno e nulla però entra nel merito delle questioni
e delle ragioni di fondo per le quali l'Italia, l'Europa, l'economia di
mercato hanno bisogno del razzismo istituzionale per il controllo e il
disciplinamento sociale della forza-lavoro migrante. Tutte
quelle lotte, mobilitazioni, comportamenti sociali che resistono alle
politiche dominanti, all'imposizione normativa delle leggi, che i
migranti autonomamente continuano a praticare rimangono sullo sfondo,
rappresentano però - sempre di più - il nodo politico che non si può
eludere.
2. Le autorità a qualsiasi livello e latitudine sanno bene che
la situazione rischia di sfuggire di mano. Sanno bene che la voglia di
"libertà, reddito, lavoro e dignità" da parte di chi ha rischiato la
vita su di un barcone nel Mediterraneo necessita di un'attenzione
diversa, non è più sufficiente la repressione invocata dalla Lega nord e
non solo. Dopo la strage politica di Lampedusa la stessa Europa ha
sollecitato una gestione più oculata degli sbarchi sulla sponda nord del
Mediterraneo e un allentamento delle operazioni di disciplinamento
dell'accoglienza.
Se da un lato non succede nulla di nuovo - la Bossi-Fini funziona
sempre a pieno regime e i migranti e le migranti sono tuttora confinati
in uno stato di sospensione e provvisorietà della propria esistenza -
dall'altro la loro impazienza cresce sempre più. Lo si è visto in forme
esplicite in queste ultime settimane. Hanno denunciato per l'ennesima
volta le discriminazioni nei servizi di base, le truffe delle sanatorie,
l'impossibilità di soddisfare i bisogni minimi di reddito, di conoscere
i tempi di rilascio dei documenti. E poi le detenzioni ripetute, gli
atti di repressione, se non di tortura. Solo chi mette la testa sotto la
sabbia non sa che i manganelli vengono utilizzati non solo nelle piazze
verso studenti e lavoratori, bensì anche nei Cie e Cara verso chi si
ribella per le condizioni di isolamento vissute quotidianamente, dove la
burocrazia di questure e prefetti diventa il braccio armato di chi sta
più in alto.
3. Insomma, vari ritocchi e trucco rifatto, ma in sostanza la
strategia dei governi, e soprattutto degli interessi che rappresentano,
rimane sempre la stessa: ricercare l'equilibrio tra: (i) la
rassicurazione dei cittadini che i confini esterni e interni - il
territorio - sono sorvegliati e le minacce di intrusione efficacemente
governate se non contrastate; (ii) il "vincolo liberale" delle
democrazie occidentali per il rispetto della dignità umana e (iii) lo
screening di un'adeguata forza-lavoro all'interno della crisi
dell'economia di mercato. Una crisi che in tutta Europa continua a
chiedere braccia e menti flessibili, a basso costo, disponibili
permanentemente per lavori principalmente dirty, dangerous, demanding
(sporchi, pericolosi e pesanti).
Ma non basta. A legittimare e formalizzare giuridicamente il
tutto contribuiscono i sindacati confederali in concerto con le
istituzioni e i padroni di turno. Attraverso "sperimentazioni"
contrattuali come il salario a cottimo, a chiamata oppure lo
smembramento dei contratti collettivi. Diversi sono i settori
dell'industria, dell'edilizia, dell'agricoltura, dalla green economy
alla logistica e grande distribuzione, dove la forza-lavoro è in
continua trasformazione, e i migranti sono i primi a subirne effetti e
anticipazioni. Per avere un quadro sufficientemente preciso basta farsi
un giro nelle grandi aree metropolitane, tra gli snodi della logistica e
della grande distribuzione, nella pianura padana e nei territori della
fabbrica "verde" del sud. Un marchingegno ben orchestrato da chi estorce
ricchezza dal lavoro vivo altrui, come unica ricetta per uscire dalla
crisi. Infatti non è un caso che Renzi e la sua combriccola, a cui si è
subito accodato anche Landini della Fiom, inizino a proporre
l'istituzionalizzazione di forme contrattuali e lavorative "usa e
getta", già ben rodate informalmente, attraverso il famigerato Job Act.
4. Che siano richiedenti asilo, profughi appena sbarcati
a Lampedusa, "turisti" con il visto d'ingresso scaduto, lavoratori e
lavoratrici incatenati dal legame tra permesso di soggiorno e contratto
di lavoro, forza-lavoro in continuo movimento, i migranti e le migranti
stanno dimostrando una soggettività difficilmente comprimibile e
normalizzabile. Continuano a sviluppare forme di protesta ed
autorganizzazione con pratiche di resistenza sociale e politica che
contribuiscono a far prendere coscienza della propria condizione di vita
e di lavoro, si fanno portavoce di proposte concrete, e iniziano a
rompere la separazione tutta politica imposta al lavoro migrante. Come
se fosse una categoria a sè stante, e non riguardasse invece il
complesso di una nuova composizione di classe in permanente
trasformazione. I cambiamenti in atto sono radicali e non sembra che
vengano colti nemmeno dalle organizzazioni sindacali conflittuali e di
base che rimangono attestate su forme organizzative, gerarchie interne,
obiettivi che si presuppongono, per loro natura, generalizzabili. Le
esperienze degli scioperi, dei picchetti davanti alle fabbriche e agli
interporti nel centro-nord, delle rivolte nei centri di detenzione (da
Torino a Mineo) come nelle strade e nelle campagne di Rosarno, Castel
Volturno e Nardò, le pratiche di occupazione a scopo abitativo, di
mutualismo e solidarietà tra gruppi di migranti e associazioni,
evidenziano un processo di soggettivazione in continua definizione che
necessita di una cesura con il passato. L'introduzione di uno scarto
politico che renda protagonisti i migranti e le migranti è anche il modo
per parlare a tutti e a tutte.
di Thomas Müntzer
da CommuniaNet.org
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