Quattro anni fa l'occupazione dell'ex-liceo Socrate. Il racconto di quei giorni, le prime assemblee organizzative, le storie dei migranti tra persecuzione, coraggio e speranza...
Socrate Migrante
di Ornella Bellucci, da Il Manifesto
Dicembre 2009
A Bari seconda occupazione. Dopo il Ferrhotel, l'ex Socrate. 40
rifugiati somali cacciati dal centro di accoglienza e rimasti per
strada occupano un ex liceo di proprietà del comune, chiuso dal 2005
perché dichiarato inagibile. Nella città di Emiliano l'emergenza
casa parla africano
BARI - Per la seconda volta nel giro di due mesi l'emergenza
abitativa a Bari spinge un gruppo di profughi africani a occupare uno
stabile dismesso. Non in centro però, dove c'è il Ferrhotel di
Trenitalia occupato da 40 somali, ma a sud della città, verso
Poggiofranco. La notte tra il 15 e il 16 dicembre circa 140 di loro,
tra cui eritrei, sudanesi, etiopi, hanno occupato la struttura su due
piani che avrebbe dovuto ospitare la prima succursale del liceo
Socrate, di proprietà del comune, dichiarata inagibile nel 2005 e
perciò chiusa (salvo essere occupata di tanto in tanto dagli
studenti per denunciare l'assenza di spazi sociali). Da qualche tempo a Bari le rivendicazioni per il diritto alla
casa, prima di essere poste dai senza tetto stanziali (migranti e
italiani), arrivano da loro. Sono tanti, ributtati in strada dopo il
passaggio al Cara, e costretti dagli accordi di Dublino a restare
temporaneamente nel territorio.
Gli occupanti dell'ex Socrate sono rifugiati politici, più alcuni
richiedenti asilo. Molti vengono da precedenti esperienze di
occupazione e sgombero a Milano. Sono organizzati. Gianni De Giglio,
impegnato sul territorio nelle lotte per la casa e aderente alla Rete
antirazzista, ricorda la vigilia dell'occupazione. «Il 15 dicembre
hanno organizzato un sit-in sotto il comune. Hanno passato la notte
lì in 40-50. Il giorno dopo una loro delegazione è stata ricevuta
dal prefetto e dall'assessore comunale alla Pace e all'Accoglienza, i
quali anziché fornire risposte concrete, hanno prospettato la
possibilità di una sistemazione temporanea in tendopoli. Loro hanno
rifiutato e hanno lasciato il presidio. Il pomeriggio si sono riuniti
in assemblea, erano quasi 150, e la sera hanno occupato».
L'assemblea si è tenuta nella sede della comunità eritrea residente
a Bari, alla quale molti occupanti fanno riferimento. La mattina dopo
ne hanno convocata un'altra, nella palestra della scuola. «Si sono
contati, segnando i nomi su un registro. E hanno eletto un comitato
di occupazione». Nelle assemblee si parlano tre lingue, perciò sono
lente, ma molto partecipate. Il comitato ha poi smistato i nuclei
familiari nelle 28 aule disponibili. Nelle più grandi ci sono gli
uomini, 7-8 per stanza.
A poche ore dalla prima assemblea al Socrate, il comitato di
occupazione ne convoca un'altra. «Per organizzare meglio il tutto, e
per decidere rispetto alla proposta arrivata dal comune», che
intanto in zona Fiera del Levante, lontano dal cuore della città, la
tendopoli l'ha allestita. Dice per i senza fissa dimora, premendo
però perché anche loro vi facciano capolino. Ogni tenda (sono sei,
sette) può ospitare fino a 15 persone, per un totale di 90 posti
letto. La tendopoli, gestita in collaborazione con la Croce Rossa,
resterà in piedi 3 mesi. Così «gli occupanti dell'ex Socrate hanno
deciso di rimanere uniti e compatti nella scuola».
La solidarietà del vicinato non è mancata. Una famiglia ha
ospitato una diciottenne col figlio neonato. Altri si sono mobilitati
portando coperte, cuscini, brande e taralli. Qualcuno ha dato loro
parte dei suoi risparmi. Continua De Giglio: «C'è la pescheria, che
mette a disposizione l'acqua». E poi c'è la Coop: «Lì vanno ai
bagni, o se devono comprare qualcosa» .
A differenza dei somali del Ferrhotel, molti parlano l'italiano.
Mentre, come loro, lavorano in nero. Puliscono i portoni, raccolgono
olive o quel che c'è nell'hinterland barese, 'faticano' come
benzinai. In questi giorni hanno incontrato gli occupanti dell'ex
Socrate. Già «la mattina dopo l'occupazione gli hanno portato parte
delle loro scorte. Tra queste, ramazze, scope, detersivi e pezze».
Con alcuni eritrei che prima dormivano nei pressi della struttura
Trenitalia già si conoscevano. Tra il Ferrhotel e l'ex Socrate ci
sono circa 4 chilometri di strada. Molti occupanti del Ferrhotel quel
giorno hanno raggiunto la struttura a piedi.
All'ora di pranzo l'ex Socrate si svuota. Resta un presidio misto
all'ingresso, che compatta una trentina di occupanti. Gli altri si
riversano nelle mense comunali. Quelle ufficiali sono due, e non
garantiscono la necessaria assistenza. Ad esempio «la mensa del
Caps, gestita da un'associazione che ha avuto finanziamenti dal
comune, ha a disposizione 60 pasti giornalieri, però sono oltre 100
le persone che ogni giorno vanno a chiedere da mangiare». Accanto
alle mense comunali, che nei giorni festivi sono chiuse, ci sono
quelle delle chiese, che sono più numerose.
Testai è uno degli occupanti. Ha 23 anni, è eritreo. Nato e
cresciuto ad Adi-Keih. È arrivato in Italia nel 2008. «Prima vai in
Sudan, fai tutto Sahara e poi Libia, e da Libia to Italy». È la
prassi. Poi c'è l'altra, altrettanto consolidata: «Un sacco di
persone in Sahara muoiono, un sacco di persone. Spesso furgoni si
rivoltano e i morti restano a terra». Anche Testai li ha visti,
anche lui ha pagato per quell'orrore. Poi l'ultimo tratto del
viaggio, dalla Libia a Lampedusa. «Su barca, tre giorni», 318
persone. Verso un'Italia che è un nuovo temporaneo orizzonte.
Nel centro di Lampedusa Testai viene trattenuto una settimana. Poi
è spedito al Cara di Bari in aereo, con altre 45 persone. Ha
lasciato l'Eritrea mesi fa, «perché c'è problemi con Etiopia». E
se anche i due paesi non sono in guerra, «però governo di Eritrea è
dittatoriale, e quindi si non obbedisce tu vai galera». Ha due
fratelli Testai. Il più grande, per aver disobbedito, sta scontando
10 anni di carcere. «Io ero soldato per governo. Quando tu diventi
soldato, per due anni non ti fanno vedere famiglia. Dopo io ho
disertato, perché non volevo fare più il militare, non volevo più
essere soldato». Ha dovuto lasciare il paese: «In Eritrea era
difficile salvare vita, a causa del governo». La commissione gli ha
riconosciuto l'asilo politico, e ora è in attesa dei documenti.
Quelli di cui è in possesso sono provvisori. Testai è un caso
Dublino. Tempo fa ha tentato di lasciare l'Italia ma è stato fermato
in Inghilterra, identificato e rispedito al Cara di Bari. Prima di
occupare l'ex Socrate si arrangiava in strada. Oggi non riesce a
trovare lavoro. «Io ho bisogno di lavoro, ma come faccio se non ho
casa, come faccio?». Gli chiedo cosa pensa dell'occupazione. «Non
avevamo scelta», dice, «comune ci deve permettere di avere casa».
Saba ha 37 anni. Viene da una città dell'Eritrea che si chiama
Menderiera. Vive in Italia da 5 anni e 5 mesi. «In mio paese c'è
guerra, sempre guerra. Prima con Etiopia, poi con Tigray. Poi ora le
corti impediscono di fare vita normale». Quando ha lasciato
l'Eritrea Saba aveva 16 anni. È arrivata con la famiglia in Sudan,
dove ha lavorato per 17 anni. «In casa di arabi, pulire, lavare,
stirare, tutto». I genitori e la sorella sono tornati in Eritrea
mentre Saba ha proseguito per l'Italia. «Io scappata da Eritrea
perché c'era guerra. Scappata da Sudan perché cominciava guerra. E
poi io non sta bene con sudanesi, no paga bene; poi io cristiana,
loro musulmani». Saba scappa dal Sudan. «Con macchina, tutto
Sahara. Loro ti porta e tu paghi. Venti giorni senza acqua, senza
mangiare. Tanti morti». Dopo il Sahara la Libia. Dove Saba ha
cercato lavoro, perché non aveva i soldi per proseguire il viaggio.
Senza però trovarlo. I soldi glieli ha prestati un'amica e si è
imbarcata per l'Italia. Saba non ha provato il carcere libico, ma suo
nipote, che occupa l'ex Socrate, sì. «No sta bene in Libia. Adesso
lui finito due anni carcere, senza motivo». Un altro ragazzo che è
lì, Bereket, lo stesso. «Quando io entrato in Libia da Sudan la
polizia mi porta in carcere con altri. Perché documenti nostri non
validi in Libia». Bereket è stato nel carcere di Seikit due mesi e
due settimane. Erano 100 persone in un recinto di ferro. «I
poliziotti picchiare sempre, giorno e notte. Con mani, così, anche
con bastone, cinture, con calci, con tutto». Si ferma: «Ci passa
piatto con cibo sotto cancello. Da uno mangia 7 persone, e da bere
acqua e sale. E poliziotti ci deruba, ci toglie tutto».
Fars è etiope, di Adis Abbeba. Diciannove anni a gennaio e sei
mesi scontati da minorenne nel carcere libico di Binkasi. «Polizia
dice: se ci date soldi, vi facciamo uscire. Quando io uscito, 100
denari pagato». E non è stato semplice. «Loro ci faceva uscire per
lavorare e poi veniva e prendeva soldi». Il lavoro era in strada.
«Con carriola, trasporto spesa libiani e loro dare mancia». Fars ha
dovuto mettere insieme molte mance per tentare di arrivare alla
quota. «Polizia prende un poco ogni giorno. Quando facevo più soldi
li rubava, e ne vuole ancora». Ma Fars non poteva farcela. E allora
come ha saldato? Sorride Fars: «Un giorno vado a lavorare e io non
tornare». Bereket, invece, «io pagato 700 denari polizia».
Gli intervistati sono rifugiati politici. Al momento non lavorano.
Saba non è in buone condizioni, è stata operata da poco a un
femore: «In campo, persona straniera viene e tira calci. Forse vuole
lavoro». Neppure Bereket riesce, e neanche Fars: «Io da quando
uscito da Cara sono 8 mesi aspettare casa».
Chissà che pensava di trovare in Italia Fars, in fuga
dall'Etiopia. Chissà se si era rappresentato come possibile una
convivenza con degli eritrei: «Sì però prima c'è guerra con
Eritrea, ora no». Ma nel suo paese non c'è libertà. «Io Oromo»,
gruppo etnico maggioritario in Etiopia. «Io fare parte di partito
Oromo, come Italia partito di sinistra. Partito Oromo lotta per
libertà», perché in Etiopia «ancora no puoi parlare, no puoi
denunciare crimini governo». Anche sua madre era militante del
"partito Oromo", cioè del Movimento federalista
democratico Oromo, accusato di sostenere il Fronte di liberazione
Oromo. «Poi la sera venuta polizia, dice: domani tu vieni ufficio».
Era sospettata di aver fornito sostegno economico al Flo, e quindi al
terrorismo. «Ma lei non è andata, no lasciato me, polizia poteva
uccidermi, e noi scappati insieme». L'accusa di terrorismo è molto
frequente in Etiopia. Viene usata dalle autorità per mettere a
tacere qualsiasi forma di opposizione o di critica alla persecuzione
degli Oromo.
Sono andati in Sudan, per un mese. La madre è rimasta lì per una
malattia che le impediva di muoversi, Fars ha proseguito il viaggio.
Ha attraversato il deserto, poi la Libia e infine è giunto in
Italia. Prima a Lampedusa e poi al Cara di Borgo Mezzanone, nel
foggiano. Ma poiché era ancora minorenne è stato affidato al centro
di accoglienza San Giuseppe, gestito da una onlus. Si trova a Borgo
Tre Santi, a Cerignola. «Al centro noi 50 ragazzi: etiopi, albanesi,
ghanesi, eritrei, kosovari. Se fai il bravo, ogni 15 giorni puoi
uscire. Oppure no». Quando ha compiuto 18 anni è stato trasferito
dal San Giuseppe al Cara di Borgo Mezzanone. Lì Fars ha fatto
richiesta di asilo politico e ora è rifugiato.
L'edificio occupato ha l'allaccio dell'acqua grazie a una cisterna
e della corrente grazie a un
generatore autofinanziato. Questo permette l'utilizzo dei bagni.
generatore autofinanziato. Questo permette l'utilizzo dei bagni.
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