
Il problema, però, sorge dal fatto che
l’industriale italiano si è sempre sentito un po’ padre di famiglia
della nazione. Non può allora che sentire un peso sulla coscienza
scoprendo che solo 3 trentenni su 100 hanno affiancato un’esperienza di studio a una di lavoro.
Non si tratta qui dei lavoretti saltuari e spesso in nero che però sono
assai graditi ai «padroncini» della ristorazione e non solo. Si tratta
invece di lavori coerenti con il proprio percorso formativo. Portando
i ragazzi fuori dalle aule fin dentro le fabbriche e gli uffici,
sostengono gli industriali, l’attuale scenario di crisi verrebbe
rovesciato. Un po’ di sana fantasia è connaturata
all’imprenditorialità, dirà qualcuno, interrogandosi su quali
opportunità di lavoro esistano per dei giovani alle prime armi in un
contesto di crescente disoccupazione. Il punto, però, non è questo. E
neanche la possibilità per il padrone di servirsi di forze fresche e
necessariamente a buon mercato coglie l’intera questione. L’alternanza
studio-lavoro auspicata dagli industriali si inserisce in un progetto
più ampio, è un tassello di politiche dell’occupazione che si innestano
in un quadro europeo. Lavoro,
studio e formazione continua concorrono insieme a ridefinire un mercato
del lavoro che ormai preme sui confini degli spazi tradizionali
dell’occupazione. Già da qualche tempo è esondato nell’occupabilità,
proprio perché, in assenza di posti di lavoro, questa rappresenta uno
spazio sufficientemente elastico da assorbire un universo frastagliato
di individui alla conquista di un lavoro, addestrandoli e
disciplinandoli alle regole di un mercato dell’occupazione che esige totale flessibilità e il maggior numero di skills.
Non a caso Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria dal cognome
impegnativo, si dice compiaciuto della recente approvazione del DL
Scuola, quello per cui, stando alle parole della ministra Carrozza, mai
più nessuno finirà la sua carriera scolastica senza aver mai lavorato. In fondo, tra lo sdegno ipocrita dei buoni occidentali, è quello che succede già in Cina,
dove gli studenti di ingegneria sono costretti a svolgere un tirocinio
alla Foxconn pena il mancato conseguimento del titolo di studio. È
chiaro allora che «Fuoriclasse!» non è solo il titolo di un’iniziativa di dubbio gusto, ma un progetto di governo della forza lavoro in divenire.
Quest’ultima viene scaraventata in un mercato del lavoro dilatato, dove
scattano meccanismi di competizione e di individualizzazione che
ostacolano percorsi di comunicazione e possibilità di connessione,
spianando la strada alla subordinazione complessiva.
«Fuoriclasse!» nasconde un lato
oscuro, il suo lato più propriamente politico: scongiurare il pericolo
che una nuova generazione di occupabili precari si riconosca come classe,
disarticolando la trama di rapporti di potere che innocentemente
chiamano «alternanza studio-lavoro». Per una buona volta dovremmo
imparare a prendere sul serio le parole degli industriali. Anche quelle
apparentemente bonarie. Per loro, infatti, i giovani sono realmente un’opportunità. E come tutte le opportunità va sfruttata. Letteralmente.
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