L'ordinanza per l'ordine pubblico e contro il degrado urbano del
Sindaco di Bari Emiliano ripropone una politica securitaria e
discriminatoria che non presenta nessuna novità rispetto al modus operandi e vivendi intrinseco
fin qui conosciuto dell'ex-magistrato barese. Un'ordinanza tutta
interna ad una crisi economica e sociale che le istituzioni credono di
poter celare e frenare con dispositivi repressivi e di ordine pubblico.
I
movimenti che si danno, si autorganizzano, lottano contro precarietà, assenza di reddito e spazi comuni non saranno certamente toccati dalla presunta
infallibilità della legge e della cultura legalitaria dei presunti
paladini della giustizia.
A proposito di politiche securitarie e repressive proponiamo un articolo sulle lotte di "opposizione al razzismo istituzionale" e sulle esperienze di riappropriazione di spazi che Bari ha vissuto negli ultimi anni grazie al movimento antirazzista e migrante. Ci vediamo presto in piazza per la prossima manifestazione oppure per pranzare insieme, sdraiarci, per concederci il pisolino pomeridiano. Daltronde la socialità e il viver meglio è anche e soprattutto questo!
Forme di opposizione al razzismo istituzionale
Il Cie, il Cara, il Ferrhotel, l’ex-scuola Socrate, piazza Umberto. Luoghi ben diversi, diverse composizioni sociali e di classe dei migranti che stanno segnando le lotte a Bari dell’ultimo anno. Forse questi luoghi possono aiutare la ricostruzione del conflitto sociale e la specifica composizione migrante fatta di comportamenti, organizzazione, condizioni lavorative in cui sono inserite le vite dei migranti in un paese dove il razzismo istituzionale e legislativo da 15 anni a questa parte è dilagante.
Il Cie e il Cara. E’ fine 2005, dopo Borgo Mezzanone a Foggia e Restinco
a Brindisi, nella periferia nord di Bari apre un centro detentivo per
migranti. I Cpt (Centri di permanenza temporanea) sono istituiti nel
1998 dalla legge Turco-Napolitano e poi tramutati in Cie (Centri di
identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi-Fini nel 2002. Anche a
Bari ha inizio il limite dello Stato, che pensa all’immigrazione
pensando a se stesso; “perché l’immigrazione rappresenta il limite dello
stato nazionale, quel limite che mostra ciò che esso è intrinsecamente,
la sua verità fondamentale. Lo Stato, per sua stessa natura, discrimina
e così si dota preventivamente di tutti i criteri appropriati,
necessari per procedere alla discriminazione, senza la quale non esiste
lo stato nazionale” (A. Sayad, in “La doppia assenza”. Cortina, Milano,
2002). Le rivolte degli ultimi mesi nel Cie di Bari-Palese dimostrano
nei fatti l’incompatibilità tra lo Stato e l’immigrazione. Ferite e
lividi sui migranti, bagni e dormitori lasciati al degrado e alla
sporcizia, testimoniate dal un filmato choc, riassumono le poche parole
di un migrante recluso: “E’ meglio il carcere! Qui ci trattano da cani”.
A poche centinaia di metri dal Cie sorge il Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo). In attesa dell’asilo politico è qui che stazionano per alcuni mesi migliaia di migranti, che scappano dall’Africa e dal Medio Oriente a causa di guerre e dittature, il più delle volte provocate dagli interessi economici e geo-strategici dei paesi occidentali.
A poche centinaia di metri dal Cie sorge il Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo). In attesa dell’asilo politico è qui che stazionano per alcuni mesi migliaia di migranti, che scappano dall’Africa e dal Medio Oriente a causa di guerre e dittature, il più delle volte provocate dagli interessi economici e geo-strategici dei paesi occidentali.
Il Ferrhotel e l’ex-scuola Socrate. Si tratta di strutture entrambe
situate in quartieri residenziali e centrali della città, occupate tra
l’ottobre e il dicembre del 2009 da migranti arrivati qualche anno prima
in Italia – non ancora inseriti nel sistema produttivo – che non
avevano luoghi in cui vivere, dormivano per strada, tra le aiuole buie
della periferia e nella stazione ferroviaria.
Le due occupazioni hanno segnato la fase costituente di un conflitto per
diritto alla casa e alla cittadinanza; una risposta al di fuori dei
meccanismi di rappresentanza politica e sindacale. A distanza di un
anno, da un lato tendono tuttora a mantenere relazioni e gerarchie
mutuate dai paesi di origine, dall’altro hanno permesso momenti di
soggettivizzazione dei migranti stessi.
Nella loro condizione provvisoria senza le minime prestazioni, quali luce e acqua, gli e le occupanti del Ferrhotel e dell’ex-Socrate hanno iniziato a parlare alla città, alle istituzioni locali. Le loro storie sono diventate una lente di ingrandimento che stanno mettendo a nudo l’incapacità dell’amministrazione comunale nell’adempiere alla cosiddetta seconda accoglienza. Occupazioni che hanno messo a nudo lo sperpero di risorse pubbliche e finanziamenti europei destinati ai migranti, ma gestite in forma autoreferenziale dal mondo dell’associazionismo antirazzista, intento a considerare i migranti “fruitori di servizi” nell’ottica di logiche solidaristiche che non vanno oltre l’evocazione astratta dei diritti e di una fantomatica integrazione, che si vuole risolvere con l’assimilazione a stili di vita e regole preconfezionate. L’esempio della tendopoli di fronte alla Fiera del Levante e dei dormitori regolati da orari di entrata ed uscita e gestiti da terzi sono l’esempio lampante di politiche da “razzismo democratico”.
Nella loro condizione provvisoria senza le minime prestazioni, quali luce e acqua, gli e le occupanti del Ferrhotel e dell’ex-Socrate hanno iniziato a parlare alla città, alle istituzioni locali. Le loro storie sono diventate una lente di ingrandimento che stanno mettendo a nudo l’incapacità dell’amministrazione comunale nell’adempiere alla cosiddetta seconda accoglienza. Occupazioni che hanno messo a nudo lo sperpero di risorse pubbliche e finanziamenti europei destinati ai migranti, ma gestite in forma autoreferenziale dal mondo dell’associazionismo antirazzista, intento a considerare i migranti “fruitori di servizi” nell’ottica di logiche solidaristiche che non vanno oltre l’evocazione astratta dei diritti e di una fantomatica integrazione, che si vuole risolvere con l’assimilazione a stili di vita e regole preconfezionate. L’esempio della tendopoli di fronte alla Fiera del Levante e dei dormitori regolati da orari di entrata ed uscita e gestiti da terzi sono l’esempio lampante di politiche da “razzismo democratico”.
Piazza Umberto. A Bari è il luogo di incontro, di crocevia di relazioni sociali dei e delle migranti. E’ il luogo da cui è partito il corteo dello sciopero dei migranti del primo marzo scorso. Un’occasione che ha fatto emergere la distanza siderale tra l’arcipelago sindacale di sinistra, sia di base che confederale, e le migliaia di storie personali e collettive dei migranti fatte di sfruttamento ed esclusione. In Puglia, il primo marzo non c’è stato lo sciopero “classico”, ma si sono rese visibili esperienze, anticipazioni, comportamenti della moderna composizione della classe migrante.
E’ apparsa, infatti, la formalizzazione della politica di disciplinamento della forza lavoro migrante. Non solo la legge Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, ma anche tutti quei provvedimenti della Giunta regionale, che con la costruzione degli alberghi diffusi nelle campagne del foggiano, con l’allestimento delle tendopoli nel Salento ha istituzionalizzato l’inserimento dei migranti nel sistema produttivo pugliese. Un sistema “regolato” sui posti di lavoro da condizioni di sfruttamento intensivo, violento e stagionale: dalle campagne dei pomodori a quelle delle olive, dal settore turistico a quello della ristorazione, dove la finalità è quella di consumare velocemente la forza lavoro viva migrante all’interno di un modo di produzione e di un sistema economico che si tramuta in un immenso Centro di permanenza temporanea, senza alcuna validazione giuridica e legislativa, in assenza di qualsiasi tutela contrattuale e sindacale. Luoghi di lavoro dove la forza lavoro migrante vive un doppio sfruttamento: quello del legame tra permesso di soggiorno e l’assenza di lavoro regolare, sostituito invece da caporalato, lavoro nero, temporaneo, nell’ottica di fare della persona una merce: quella dell’”usa e getta”, funzionale al capitalismo globalizzato.
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