Il reportage di Marco Anselmi su "Nardò: terra di schiavi e schiavisti moderni". Consapevoli che il caporalato è solo la punta dell'iceberg di un sistema molto più profondo, dove il problema sono le aziende, i loro padroni e le leggi del mercato e della concorrenza.
Usciti
dall’autostrada, superata la zona industriale in direzione del centro
storico di Nardò, ci s’imbatte in un cartello con scritto “Benvenuti a
Nardò, città dell’accoglienza”. Cartello che sembra quasi ironico per
quello che succede ai lati di questo; sembra un mascherare tutto quello
che ogni estate avviene nelle campagne “celebrate” da questa scritta. Un
messaggio che più si legge e più assume le forme di un insulto. Esiste,
infatti, in questa zona della provincia di Lecce, un fenomeno dalle
radici profonde, che, nonostante le sue trasformazioni nel corso della
storia, può ancora essere definito “Caporalato”.
Nardò
è un comune di 31.957 abitanti, di cui secondo i dati del 2012, l’1,9 %
di nazionalità straniera, senza tener conto però degli immigrati
irregolari, che rappresentano una realtà tutt’altro che insignificante. A
muovere l’economia qui è principalmente l’agricoltura: i terreni
complessivamente coltivati sono infatti 50000 ettari, il più alto valore
a livello regionale e il terzo agro d’Italia per estensione. La
produzione agricola si concentra soprattutto su pomodori e angurie;
durante i periodi di raccolta la città si riempie di cittadini stranieri
in cerca di un impiego temporaneo, i quali sono a conoscenza del fatto
che questo sia facilmente rintracciabile grazie al mercato nero che
caratterizza il lavoro stagionale agricolo. La produzione, è legata ai
tempi della raccolta, l’offerta di lavoro per i braccianti è a tempo più
che determinato, l’impiego è, infatti “alla giornata” o per un periodo
ristretto di tempo o addirittura a cottimo. Chi affolla le piazze la
mattina presto, per essere scelto dai caporali, sono a oggi
principalmente cittadini africani, bulgari, rumeni e polacchi. La
presenza di forza lavoro straniera offre la possibilità, per i
produttori e i padroni locali, di abbassare sostanzialmente il costo del
lavoro.
I caporali, infatti, tendono a reclutare coloro che sono
disposti ad accettare salari più bassi e orari di lavoro massacranti;
questi sono facilmente ricattabili dai caporali in quanto i pagamenti
percepiti, se percepiti, non corrispondono mai alla cifra pattuita, ma è
molto difficile che i braccianti si ribellino per paura di non essere
nuovamente scelti. Le condizioni abitative dei braccianti stagionali
nella zona di Cerignola sono assolutamente inadeguate, molti di loro,
infatti, abitano nelle vecchie case del centro storico cittadino in
numeri spropositati, è facile che in una casa di trenta metri quadrati
abitino anche venti persone; altri invece trovano rifugio nei vecchi
casolari abbandonati nelle campagne, senza acqua corrente, luce e
servizi igienici. L’emergenza abitativa dei lavoratori stranieri, ha
portato all’occupazione di Tre Titoli, un vecchio borgo agricolo, a
tredici chilometri dalla città. Quest’area è divenuta una sorta di
“ghetto”, al cui interno convivono diversi gruppi etnici in condizioni
igienico-sanitarie più che preoccupanti, preoccupanti a tal punto da
spingere l’Associazione Emergency a recarsi sul posto con i propri
ambulatori e volontari e nel luglio scorso, addirittura, il Ministro per
l’Integrazione Cecile Kienge.
La storia di un fenomeno senza fine
Per caporale si intende “chiunque
svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando
manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da
sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione,
approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.
Lo
sfruttamento degli immigrati tramite il sistema del caporalato in
Puglia non è una novità. Il fenomeno del caporalato ha assunto nomi e
forme diverse nel corso del tempo. Alla fine dell’Ottocento, quando era
diffuso il latifondo, nel periodo del raccolto i braccianti risiedevano
nelle masserie e i padroni necessitavano quindi di diversi sorveglianti
che si occupassero dei vari aspetti dell’organizzazione del lavoro nei
campi. I caporali erano i controllori di lavoro, gli ultimi di una
gerarchia di sfruttatori, e proprio per questo, caricati dalla tensione
proveniente dall’alto, sentendosi piccoli, la sfogavano in violenza sui
sottoposti. Dall’inizio del Novecento i controlli dei caporali
avvenivano con le armi ed è grazie al movimento bracciantile iniziato da
Di Vittorio (politico, sindacalista e antifascista ndr) che se ne
chiede il disarmo. Già allora la paga spesso non corrispondeva a quella
pattuita al momento dell’ingaggio e sempre grazie all’impegno di Di
Vittorio che i braccianti decisero di unirsi per chiedere il giusto,
tentando, per la prima volta, di aprire un dialogo anche alle
istituzioni e alla polizia. Passato il difficile periodo del fascismo, è
nel ’47 che i sindacati dei braccianti italiani ottengono “l’imponibile
di mano d’opera” che sancisce la fine del caporalato così descritto. Il
fenomeno tuttavia persiste e prosegue fino ad oggi assumendo una
diversa forma: il caporale diventa, infatti, l’intermediatore tra il
padrone e la manodopera, gestore, quindi, del lavoro, delle paghe e del
reclutamento. Per anni lo sfruttamento ha riguardato principalmente le
donne, negli ultimi decenni, invece, esso si è concentrato sugli
immigrati.
La schiavitù moderna non è più (o non solo) fatta di
catene, ma approfitta della condizione di bisogno (economico, morale e/o
culturale) di una grande fetta della popolazione mondiale. Per gli
artt. 600, 601 e 602 del nostro codice penale, come modificati dalla
legge 23 del 2003, è sufficiente la presenza dell’inganno e/o della
forza, anche senza una vera e propria costrizione fisica, perché si
configurino i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù, di
tratta di persone e di acquisto ed alienazione di schiavi. Lo
sfruttamento degli stranieri, che a volte sfocia in vera e propria
riduzione in schiavitù, nel settore agricolo come in tutti gli altri
settori, da parte della mafia o degli imprenditori agricoli, trova in
Puglia un terreno particolarmente fertile perché beneficia di una
diffusa illegalità, e dell’accettazione della stessa da parte dei più,
che caratterizza tutta una serie di relazioni sociali, specie quelle che
riguardano il lavoro. Il lavoro “mediato”, il doversi affidare agli
altri per trovare un lavoro, il doversi piegare a qualsiasi richiesta e
sopruso del mediatore e del padrone, sono passaggi quasi obbligati per
chi ha il permesso, ma non riesce a trovare un lavoro legale, e
specialmente per chi è clandestino, per chi insomma si ritrova in una
posizione di grande vulnerabilità e totale mancanza di capacità
contrattuale. E questo non solo perché queste persone subiscono il
ricatto dell’espulsione, ma anche perché sono sole. Ciò che tutela chi, e
non sono solo stranieri, è costretto a lavorare in nero, sono le reti
familiari, sociali, informali ed eventualmente formali alle quali il
lavoratore può rivolgersi. Il lavoratore straniero senza permesso di
soggiorno non può rivolgersi a nessuna agenzia di tutela formale (anche
se i sindacati a volte in questo fanno miracoli), né tanto meno alle
forze dell’ordine che, in ottemperanza alla legge Bossi-Fini, ha la
facoltà di espellere lo straniero clandestino che si espone facendo una
denuncia, se non tiene conto delle tutele dell’art. 18 del T.U.
sull’immigrazione. Infine, non ha neanche reti sociali a cui chiedere
aiuto. Così anche i cadaveri rimangono non identificati, come se queste
persone non fossero mai esistite, non avessero avuto relazioni, qualcuno
che li possa riconoscere.
Le voci di chi non vuole essere più uno schiavo
Corpi
smagriti e pieni di cicatrici, occhi gonfi di lacrime e volti segnati
dalla stanchezza; sono queste le sagome umane che escono dai campi di
Nardò e che si presentano davanti a chi vi scrive. Corpi di persone
arrabbiate ma orgogliose. Esseri umani che non sono considerati più come
tali, ma che non vogliono cedere a questo; che non ci stanno a subire
questa reificazione costante. Non vogliono più essere visti come animali
o oggetti inanimati; non ci stanno più a subire forme di razzismo di
imitazione (la tendenza ad associare l’origine geografica e il colore
della pelle al grado di civiltà e di sviluppo socio-economico ai diversi
popoli e gruppi africani distinguendo tra chi proviene dal nord o dal
sud del Sahara, così come facevano gli Europei durante il periodo
coloniale) da chi loro chiamavano e consideravano “Fratelli africani”. E
tra questi “lavoratori stagionali“ c’è anche chi è stanco di stare
zitto e subire passivamente questa nuova schiavitù; come non raccontare
allora le loro storie, i loro viaggi, le loro vicende e vite se non
usando le loro parole; le loro testimonianze.
NIZAR: “Ora c’è un Sudanese, si chiama Dhaw (ora in carcere ndr),
è un compaesano di quello che mi ha accompagnato a lavorare nei campi.
Questo controlla tutto e quando se ne va al suo posto vengono dei
ragazzi più giovani che tutti qua chiamano “i soldatini”. Questi per
farci lavorare ci gridano contro di tutto, insultandoci come fossimo
animali. Alcuni dei lavoratori provano a scappare, ma vengono sempre
scoperti e a volte anche picchiati. Spesso saltiamo i pasti perché non
possiamo pagare. Ci laviamo con l’acqua con cui vengono irrigati i campi
e facciamo i nostri bisogni accanto a dove dormiamo e non perché siamo
animali, ma perché ci dicevano di farlo lì e no in altri posti che
secondo i capi non sta bene.”
TERIM: “Mi parlò
di qua a Nardò e della possibilità di lavorare un Italiano, non mi
ricordo come si chiama, ma è stato lui a portarmi nei campi con la sua
Jeep. Sempre lui è stato a presentarmi Sabr (ora indagato per il reato di sfruttamento di persona ndr),
che il primo giorno sembrò molto simpatico e disponibile. Era lui che
doveva controllarmi mentre raccoglievo i pomodori. Tutto quello che mi
disse il primo giorno di lavoro, si rivelò una bugia. La mia giornata
lavorativa durava dieci ore. Da quello che guadagnavo Sabr, mi toglieva 4
euro per il trasporto ai campi, 2.50 euro per una bottiglia d’acqua e
in dieci ore di lavoro ne servivano almeno due di queste… In più mettici
i 6 euro per un panino e se volevamo 4.50 euro per qualche sigaretta…
La cosa peggiore che tutte queste cose le ho scoperte al momento della
paga…”.
AGREB ALI’: “Era noto a Sfax (Tunisia)
che Bachir organizzava gruppi che partivano dalla Tunisia per l’Italia.
Ci demmo appuntamento, per pianificare la partenza, a un caffè al centro
di Sfax, dove io portai anche il mio amico Fathi. Bachir tre mesi prima
della partenza ci chiese subito di versare 3000 dinari (circa 2000
euro), con la promessa di farci arrivare in Italia e farci lavorare
subito in un’azienda che produce fiori con regolare contratto di lavoro e
ci disse che grazie a questo avremmo ottenuto facilmente anche un
regolare permesso di soggiorno. Due mesi dopo ci rivedemmo e Bachir ci
chiese altri 1350 dinari (800 euro) per la casa in cui avremmo dovuto
alloggiare, aggiungendo che questa era fondamentale per ottenere i
documenti in Italia. Così nostro malgrado fummo costretti a pagare anche
gli altri soldi. Io vendetti la mia macchina, il mio amico fu costretto
a chiederli alla sua famiglia. Ma non finì lì perché il giorno prima
della partenza Bachir ci chiese altri 130 dinari per la barca… Arrivammo
a Palermo e non trovammo nessun fioraio ad attenderci e Bachir
scomparse.”
IMED: “Una volta arrivato, credendo
di essere a Catania, dove mi avevano promesso un posto di lavoro, chiesi
al ragazzo che guidava il camion dove fosse la mia nuova casa. Dalle
risposte di questo capii che non eravamo a Catania, ma a Santa Croce
Camerina, vicino Ragusa. Questo ragazzo mi portò in una piazza dove
c’erano molti miei connazionali, qua arrivò un certo Hussein che ci
tolse e ci obbligò a strappare tutti i nostri documenti, dopo di che ci
portò in un casolare, lasciandoci lì per tre giorni. Dopo questi tre
giorni quel bastardo di Hussein tornò con due camion e ci portò qua a
Nardò, dove lavoriamo e basta per pochissimi soldi.”
SAID:
“Arrivai a Nardò con il pullman alle 16.00 e andai davanti a un
distributore Agip. Quel distributore di benzina era un luogo di recupero
manodopera, chi voleva lavorare andava lì; lo sapevano tutti! Li
conobbi Sabr, il figlio di Hedi, che mi disse che potevo tranquillamente
dormire direttamente nei campi la notte se avevo una tenda a patto di
pagare un affitto e se non avevo una tenda, me l’avrebbe trovata lui. Mi
sembrava un bravo ragazzo, la sera stessa mi diede due cartoni e una
corda e mi disse che potevo legarli a un albero e farci una tenda e che
per mangiare potevo andare dal ristorante del padre in cui si poteva
anche non pagare subito per poi saldare successivamente. Inizialmente mi
sembrò una cosa buona, poi quando andai a pagare un giorno scoprii che
il mio debito di 5 euro si era trasformato in 10 euro…”
WANNES BILEL:
“E’ dal 2005 che tutte le estati vengo a Nardò per la raccolta delle
angurie e dei pomodori. Lo faccio perché è l’unico posto in cui riesco a
lavorare. Ho trovato questo posto grazie ad Hedi, un Tunisino detto il
“Capo dei neri”, perché per lui passano tanti operai. E’ molto attento
nello scegliere chi può lavorare o no, controlla se sono rifugiati o
clandestini, ma preferisce trattare con i clandestini perché non avendo i
documenti, accettano qualunque cosa. Io continuo a venire qua perché
sono invalido e, qua e l’unico posto in cui mi prendono, guadagno poco è
vero, ma almeno poi mangio qualcosa. L’unica cosa bella è conoscere e
parlare ogni anno tante persone nuove. Ma sinceramente spero di non
tornare il prossimo anno!”.
La versione di un caporale
Nei
racconti degli intervistati spesso è emerso il nome del “Capo dei neri”
o del “ristoratore” di nome Hedi. Questo signore, di origine tunisina, è
uno dei più anziani “intermediari” che da anni procaccia manovalanza ai
grandi proprietari agricoli della zona di Nardò. In un campo questo
“gestisce” un ristorante da campo. Da anni tramite un sistema di omertà
molto radicato nella zona, è riuscito a uscirne sempre pulito dalle
varie inchieste che si sono seguite e che l’hanno visto coinvolto. Chi
vi scrive fingendosi un turista smarrito e assetato e chiedendo
dell’acqua al suo ristorante è riuscito a parlarci, nascondendo un
microfono (e per questo mi scuso della qualità dell’audio), in maniera
molto informale, quasi amichevole e da queste parole (cui rimando al
file audio qua nel sito del blog) in cui oltre a espressioni come “il
caporalato non esiste, è tutta un’invenzione della CGIL” e “Prima dello
sciopero dei migranti si stava meglio. I proprietari non sfruttano, ma
aiutano” emerge la figura di una persona di molto associabile
ai classici profili del connivente col sistema mafioso e di una persona
che sembra fregarsene e quasi compiacersene nel vedere quelle sagome che
ormai di umano hanno poco che ogni estate si ammassano nelle campagne
pugliesi e non solo.
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