"Tra punto e punto di un corpo
sociale, tra il maestro e il suo allievo, tra chi sa e chi non sa,
passano delle relazioni di potere che non sono la proiezione pura e
semplice del grande potere sovrano sugli individui; sono piuttosto il
mobile e concreto suolo sul quale quel potere si ancora, le condizioni
di possibilità perché esso possa funzionare" (Michel Foucault)
Da molti anni inserisco in esergo ai miei documenti di programmazione (una pratica didattica divenuta sempre più inutile con prevalere del suo aspetto formale e burocratico) una sentenza di Raoul Vaneigem: una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie. Da autentica sententia, la formula di Vaneigem condensa il suo Avviso agli studenti [1], un testo imprescindibile per ogni pratica didattica libertaria, che a sua volta potrebbe essere considerato un breviario laico che si srotola attraverso la serie di sententiae che ne introducono i principali capitoletti:
• una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività
• come può esserci conoscenza dove c'è oppressione?
• imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare
• ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso.
A queste sentenze se ne aggiungono altre che costituiscono un vero e proprio programma pratico di riforma dell'educazione:
• farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione del desiderio
• smilitarizzare l'insegnamento
• liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
• fare della scuola il centro di creazione di vita, non l'anticamera di una società parassitaria e mercantile
• imparare l'autonomia, non la dipendenza.
Quel che Vaneigem ha compreso è che non c'è vera pedagogia che non sia libertaria: perché una pratica scolastica può solo essere o una pedagogia o una disciplina, un prendersi cura (paideia) o una pratica disciplinare e disciplinante. Si pensi al modo in cui nell'epoca dell'imperialismo le istituzioni scolastiche sono state utilizzare per inculcare non solo i contenuti, ma anche le forme della ragione eurocentrica. Al tempo stesso, nelle scuole, università, accademie militari coloniali si formavano i leader dei movimenti di liberazione: ma, di nuovo, liberarsi dai colonizzatori è stato più facile che liberarsi del punto di vista coloniale, quello che fa di ogni colonizzato – dall'indo-pakistano al maghrebino all'africano, fino al meridionale sottoposto alla colonizzazione sabauda – un supposto essere inferiore il cui scopo sarebbe quello di colmare la differenza tra sé e il colonizzatore, fino a identificarsi nell'immagine di sé che la cultura coloniale gli ha inculcato.
E quindi la scuola, qualunque scuola – compresa quella scuola che è la strada – può rendere liberi, ma può anche incatenare: non c'è pratica scolastica che non contenga al proprio interno da un lato l'effettualità di una trasmissione della cultura dominante all'interno dei soggetti che apprendono, e dall'altro la potenzialità di una critica del sapere dominante.
Si insiste molto, forse troppo, con effetti retorici involontari ma non meno tossici, su quanto di buono faccia, o possa fare, o potrebbe fare una buona istruzione: dimenticando che se il potenziale liberatorio dell'istruzione è, per l'appunto, una potenzialità, il carattere disciplinare e disciplinante dell'educazione è un'effettualità, che affonda le proprie radici in un passato tutt'altro che passato. Lo attestano quei monumenti che sono i vecchi edifici scolastici, nella loro somiglianza con i penitenziari: «Le finestre poste in alto non permettevano allo sguardo dell'allievo che un'occhiata verso il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di tortura, subiva nell'imbarazzo ordinario il suo destino terrestre. Prevaleva allora l'opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava imparare a soffrire. Entrare nell'età adulta, non era forse rinunciare ai piaceri dell'infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza, di morte?» [2].
Simili alle mura scolastiche sono anche i muri invisibili, i limiti e i confini interni che delimitano le istituzioni educative, giacché «l'istituzione non consta solo di muri e di strutture esteriori che circondano, proteggono, garantiscono o costringono la libertà del nostro lavoro, essa è anche ed è già la struttura della nostra interpretazione» [3].
Pensiamo a quella banale pratica didattica che è l'insegnamento della lingua, sulla quale già Nietzsche centrava le conferenze Sull'avvenire delle nostre scuole: delle quali il meno che si possa dire è che hanno colto il nesso tra pratica educativa e creazione di una forza-lavoro intellettuale al servizio degli scopi economici e utilitari della società: vale a dire, la messa in questione dell'alternativa – su cui una didattica deve prendere una decisione – tra cultura e "giornalismo", ossia come «un lavoro alla giornata», che consiste «nell'educare uomini quanto più possibile "correnti", nel senso in cui si chiama "corrente" una moneta» [4] per asservirli alla macchina scientifico-economica. Da cui l'alternativa tra istituti per la cultura e istituti per i bisogni della vita nei quali la cultura viene scambiata con «quell'utile serva domestica che talvolta viene anche chiamata "cultura", ma non è altro che la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria» [5]. Il giovane Nietzsche aveva compreso che l'insegnamento (non solo quello della lingua) non può prescindere dalle condizioni generali della società, dai suoi bisogni, dai suoi scopi; a maggior ragione, quando questi scopi sono dettati dal comando economico-finanziario.
Mancava, a Nietzsche, la grammatica fondamentale per cogliere questi movimenti come una traduzione di ogni valore d'uso in valore di scambio, e una sintassi capace di descrivere questa traduzione come circolazione e distribuzione di un'analitica del comando: quella lingua che permette a Vaneigem di scrivere che «l'educazione appartiene alla creazione dell'uomo, non alla produzione di merci» [6]. Non di meno, la questione era impostata. Il linguaggio, infatti, è meno uno strumento neutro di comunicazione e trasmissione di informazioni che lo strumento di una macchina didattica che «impone all'allievo delle coordinate semiotiche attraverso tutte le basi duali della grammatica (maschile-femminile, singolare-plurale, sostantivo-verbo, soggetto dell'enunciato-soggetto dell'enunciazione, ecc.)». Prima di essere un marcatore sintattico, una regola grammaticale è un marcatore di potere: «l'ordine non si rapporta né a significazioni preliminari, né a una preliminare organizzazione di unità distintive. Al contrario, l'informazione non è che lo stretto minimo necessario all'emissione, trasmissione e osservazione degli ordini in quanto comandi. […] È in questo senso che il linguaggio è trasmissione di parole che funzionano come parole d'ordine, e non comunicazione di un segno come informazione» [7].
[Puoi leggere tutto l'articolo sul n. 8 della "Nuova rivista Letteraria"]
Note
[1] Raoul Vaneigem, Avertissement aux écoliers et lycéens, trad. it. di Sergio Girardi senza copyright e disponibile su Internet: Avviso agli studenti, Liri Press 2012.
[2] Ibidem, pp. 16-17.
[3] Jacques Derrida, Du droit à la philosophie, Galiléè, Paris 1990, trad. it. Parziale di Emilio Sergio Del diritto alla filosofia, Abramo editore, Catanzaro, 1999, p. 209. I testi di Derrida che cito si riferiscono alle istituzioni universitarie. Ringrazio Emmanuel Biset per aver attirato la mia attenzione su di loro.
[4] Friedrich Nietzsche, Über die Zukunf unserer Bildungsnstalten, 1872, trad. it. Di Giorgio Colli Sull'avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 1975, pp. 31-35.
[5] Ibidem, pp. 86, 89.
[6] Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, p. 53.
[7] Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980, pp. 95-97.
Da molti anni inserisco in esergo ai miei documenti di programmazione (una pratica didattica divenuta sempre più inutile con prevalere del suo aspetto formale e burocratico) una sentenza di Raoul Vaneigem: una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie. Da autentica sententia, la formula di Vaneigem condensa il suo Avviso agli studenti [1], un testo imprescindibile per ogni pratica didattica libertaria, che a sua volta potrebbe essere considerato un breviario laico che si srotola attraverso la serie di sententiae che ne introducono i principali capitoletti:
• una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività
• come può esserci conoscenza dove c'è oppressione?
• imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare
• ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso.
A queste sentenze se ne aggiungono altre che costituiscono un vero e proprio programma pratico di riforma dell'educazione:
• farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione del desiderio
• smilitarizzare l'insegnamento
• liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
• fare della scuola il centro di creazione di vita, non l'anticamera di una società parassitaria e mercantile
• imparare l'autonomia, non la dipendenza.
Quel che Vaneigem ha compreso è che non c'è vera pedagogia che non sia libertaria: perché una pratica scolastica può solo essere o una pedagogia o una disciplina, un prendersi cura (paideia) o una pratica disciplinare e disciplinante. Si pensi al modo in cui nell'epoca dell'imperialismo le istituzioni scolastiche sono state utilizzare per inculcare non solo i contenuti, ma anche le forme della ragione eurocentrica. Al tempo stesso, nelle scuole, università, accademie militari coloniali si formavano i leader dei movimenti di liberazione: ma, di nuovo, liberarsi dai colonizzatori è stato più facile che liberarsi del punto di vista coloniale, quello che fa di ogni colonizzato – dall'indo-pakistano al maghrebino all'africano, fino al meridionale sottoposto alla colonizzazione sabauda – un supposto essere inferiore il cui scopo sarebbe quello di colmare la differenza tra sé e il colonizzatore, fino a identificarsi nell'immagine di sé che la cultura coloniale gli ha inculcato.
E quindi la scuola, qualunque scuola – compresa quella scuola che è la strada – può rendere liberi, ma può anche incatenare: non c'è pratica scolastica che non contenga al proprio interno da un lato l'effettualità di una trasmissione della cultura dominante all'interno dei soggetti che apprendono, e dall'altro la potenzialità di una critica del sapere dominante.
Si insiste molto, forse troppo, con effetti retorici involontari ma non meno tossici, su quanto di buono faccia, o possa fare, o potrebbe fare una buona istruzione: dimenticando che se il potenziale liberatorio dell'istruzione è, per l'appunto, una potenzialità, il carattere disciplinare e disciplinante dell'educazione è un'effettualità, che affonda le proprie radici in un passato tutt'altro che passato. Lo attestano quei monumenti che sono i vecchi edifici scolastici, nella loro somiglianza con i penitenziari: «Le finestre poste in alto non permettevano allo sguardo dell'allievo che un'occhiata verso il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di tortura, subiva nell'imbarazzo ordinario il suo destino terrestre. Prevaleva allora l'opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava imparare a soffrire. Entrare nell'età adulta, non era forse rinunciare ai piaceri dell'infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza, di morte?» [2].
Simili alle mura scolastiche sono anche i muri invisibili, i limiti e i confini interni che delimitano le istituzioni educative, giacché «l'istituzione non consta solo di muri e di strutture esteriori che circondano, proteggono, garantiscono o costringono la libertà del nostro lavoro, essa è anche ed è già la struttura della nostra interpretazione» [3].
Pensiamo a quella banale pratica didattica che è l'insegnamento della lingua, sulla quale già Nietzsche centrava le conferenze Sull'avvenire delle nostre scuole: delle quali il meno che si possa dire è che hanno colto il nesso tra pratica educativa e creazione di una forza-lavoro intellettuale al servizio degli scopi economici e utilitari della società: vale a dire, la messa in questione dell'alternativa – su cui una didattica deve prendere una decisione – tra cultura e "giornalismo", ossia come «un lavoro alla giornata», che consiste «nell'educare uomini quanto più possibile "correnti", nel senso in cui si chiama "corrente" una moneta» [4] per asservirli alla macchina scientifico-economica. Da cui l'alternativa tra istituti per la cultura e istituti per i bisogni della vita nei quali la cultura viene scambiata con «quell'utile serva domestica che talvolta viene anche chiamata "cultura", ma non è altro che la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria» [5]. Il giovane Nietzsche aveva compreso che l'insegnamento (non solo quello della lingua) non può prescindere dalle condizioni generali della società, dai suoi bisogni, dai suoi scopi; a maggior ragione, quando questi scopi sono dettati dal comando economico-finanziario.
Mancava, a Nietzsche, la grammatica fondamentale per cogliere questi movimenti come una traduzione di ogni valore d'uso in valore di scambio, e una sintassi capace di descrivere questa traduzione come circolazione e distribuzione di un'analitica del comando: quella lingua che permette a Vaneigem di scrivere che «l'educazione appartiene alla creazione dell'uomo, non alla produzione di merci» [6]. Non di meno, la questione era impostata. Il linguaggio, infatti, è meno uno strumento neutro di comunicazione e trasmissione di informazioni che lo strumento di una macchina didattica che «impone all'allievo delle coordinate semiotiche attraverso tutte le basi duali della grammatica (maschile-femminile, singolare-plurale, sostantivo-verbo, soggetto dell'enunciato-soggetto dell'enunciazione, ecc.)». Prima di essere un marcatore sintattico, una regola grammaticale è un marcatore di potere: «l'ordine non si rapporta né a significazioni preliminari, né a una preliminare organizzazione di unità distintive. Al contrario, l'informazione non è che lo stretto minimo necessario all'emissione, trasmissione e osservazione degli ordini in quanto comandi. […] È in questo senso che il linguaggio è trasmissione di parole che funzionano come parole d'ordine, e non comunicazione di un segno come informazione» [7].
[Puoi leggere tutto l'articolo sul n. 8 della "Nuova rivista Letteraria"]
Note
[1] Raoul Vaneigem, Avertissement aux écoliers et lycéens, trad. it. di Sergio Girardi senza copyright e disponibile su Internet: Avviso agli studenti, Liri Press 2012.
[2] Ibidem, pp. 16-17.
[3] Jacques Derrida, Du droit à la philosophie, Galiléè, Paris 1990, trad. it. Parziale di Emilio Sergio Del diritto alla filosofia, Abramo editore, Catanzaro, 1999, p. 209. I testi di Derrida che cito si riferiscono alle istituzioni universitarie. Ringrazio Emmanuel Biset per aver attirato la mia attenzione su di loro.
[4] Friedrich Nietzsche, Über die Zukunf unserer Bildungsnstalten, 1872, trad. it. Di Giorgio Colli Sull'avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 1975, pp. 31-35.
[5] Ibidem, pp. 86, 89.
[6] Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, p. 53.
[7] Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980, pp. 95-97.
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