La strage avvenuta alcuni giorni fa nel mare di Lampedusa ha
suscitato un grande clamore mediatico accompagnato da accesi e ipocriti
dibattiti politici. Come sempre, sui media, commozione e cronaca vanno a
braccetto: ci vuole una enorme tragedia e grandi numeri per rendere
attraverso gli schermi delle televisioni e dei sociali network l’idea di
una nave colata a picco colma di esseri umani per immaginare la
disperazione di tante vite silenziose, storie, quasi irreali, di chi
scappa da una guerra, da persecuzioni, dalla miseria, o semplicemente
vorrebbe una vita migliore. Tragedie simili a questa, con numeri meno
eclatanti, si consumano giorno dopo giorno, da più di vent’anni. Un
lento stillicidio che ha trasformato il Mar Mediterraneo in un cimitero
di migliaia di corpi che non trovano spazio sui media, né ricevono
lacrime istituzionali.
L'UE e i singoli Stati membri, nel
corso degli ultimi vent’anni, hanno elaborato politiche migratorie
sempre più incentrate sugli aspetti repressivi e gli orientamenti
securitari. La volontà dichiarata di contrastare l’immigrazione
irregolare è divenuta il leitmotiv della maggior parte dei
discorsi pubblici (politici e/o massmediatici) che si è espressa fino ad
oggi quasi esclusivamente mediante l’elaborazione di strumenti
repressivi quali l’irrigidimento e l’esternalizzazione dei controlli
alle frontiere o il rafforzamento delle garanzie d’esecutività per le
espulsioni, lasciando nel dimenticatoio la promozione di percorsi di
cittadinanza. Finora l’armonizzazione normativa tra gli Stati membri è
avvenuta quasi esclusivamente in negativo, con la diffusione di pratiche repressive e di standard
di diritti al ribasso. La stragrande maggioranza delle iniziative è
andata nella direzione di assicurare la chiusura delle frontiere,
nell’infondata illusione di bloccare i flussi migratori, mentre, in
concreto, poco è stato fatto per promuovere la libertà di movimento e di
residenza entro i confini di ogni Stato, così come prevede, tra
l’altro, l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Il dibattito sulle migrazioni, specie in Italia, pare sempre fermo all’anno zero. Sembra di vivere in un continuo déjà vu,
nonostante i primi migranti giungano in Italia già dagli anni settanta:
ad oggi, dopo oltre quarant’anni, ci si concentra solo sugli aspetti
della finta emergenza in cui il paese viene ciclicamente fatto
ricadere.
Nel vuoto della politica istituzionale, il tema delle
migrazioni e dei diritti dei cittadini migranti è sparito dalle
battaglie dei partiti. È rimasto solo nelle rivendicazioni di qualche
leader desideroso di fare scalpore e guadagnarsi voti con la demagogia
della crociata contro gli “invasori” stranieri. Vent’anni di approccio
emergenziale e securitario, infatti, hanno performato il senso
comune della gente creando una falsa contrapposizione tra migranti e
autoctoni, facendo dei cittadini stranieri un facile capro espiatorio
su cui scaricare surrettiziamente le tensioni sociali interne alle
società e riproporre in questo modo la vecchia ma sempre attuale logica
del divide et impera.
I migranti oggi, a causa
dello speciale regime giuridico a cui sono sottoposti, vivono in maniera
più accentuata e drammatica le medesime condizioni di precarietà e
deprivazione di forza contrattuale a cui la maggioranza di noi cittadini
è costretta da un sistema politico ed economico che basa la sua
esistenza sull’esclusione. Un sistema che impedisce a quote
sempre più ampie di soggetti la possibilità di vivere una vita degna di
essere vissuta e l’accesso a diritti basilari, ad iniziare dal diritto
al lavoro. Le migrazioni, quindi, esplicitano le dinamiche e le
contraddizioni presenti nella società attuale rendendole maggiormente
visibili. D'altronde, il legame tra politiche economiche e politiche
migratorie è sempre stato molto stretto, tanto nel recente passato,
quanto oggi, le modalità di gestione dei fenomeni migratori sono state,
in fondo, una specifica modalità di gestione della forza lavoro. Una
gestione che mutava al mutare delle generali condizioni economiche e
produttive, ma che in ultima analisi tendeva e tende a depauperare di
capacità contrattuale la forza lavoro dipendente non autoctona,
situazione questa che si accentua, in particolare, nei periodi di crisi
economica come quello attuale. Proprio in virtù di ciò, tornare a porre
la questione migratoria al centro del dibattito politico vuol dire
mettere in discussione i meccanismi basilari di funzionamento -
svelandone le contraddizioni - delle scelte politiche ed economiche
neoliberiste che guidano l’azione di governo dei paesi dell’Unione
Europea, a prescindere dallo specifico orientamento politico che di
volta in volta esprimono.
Data la portata e la complessità
del tema, riteniamo che la questione migratoria non possa essere
demandata solo a iniziative locali, significative sì, ma che per ovvi
motivi restano circoscritte. Sarebbe importante un coordinamento delle
iniziative portate avanti dalle diverse realtà impegnate sui territori.
Avvertiamo infatti la necessità di riportare il tema delle migrazioni al
centro del dibattito pubblico attraverso un confronto nazionale che
punti, nell’immediato, alla revisione totale dell’impianto normativo
riguardante la migrazione in Italia, ad iniziare dall’abrogazione della
legge Bossi-Fini (n. 189 del 2002), che, è bene ricordarlo, non fa altro
che peggiorare solo alcuni aspetti della precedente legge (si pensi al
prolungamento dei tempi di detenzione dei Centri di Identificazione ed Espulsione o all’istituto del contratto di soggiorno,
solo per citare due esempi tra i tanti). Un coordinamento tra le
diverse realtà locali che abbia una prospettiva d’azione nazionale e
internazionale, che emancipi l’approccio ai fenomeni migratori dalla
“filosofia dell’ordine pubblico” e abbia la capacità di
ricontestualizzare la tematica nelle più generali dinamiche sociali,
politiche ed economiche della contemporaneità.
per info e adesioni: reteantirazzistasalento@yahoo.it
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