martedì 11 giugno 2013

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO? Intervista a un gruppo di lavoratori della Bridgestone

Davanti ai cancelli della Bridgestone di Modugno, zona industriale di Bari, è presente ormai da due mesi il presidio dei lavoratori in mobilitazione a causa dell'annuncio della chiusura dello stabilimento prevista per il 2014.

E' un sabato mattina piuttosto tranquillo. Il clima è ben diverso dai momenti caotici e di massima rabbia vissuti a causa delle notizie provenienti dalla direzione aziendale. Siamo seduti con alcuni lavoratori ai quali se ne aggiungeranno altri, tra cui un pensionato che ha vissuto gli anni 60 e 70. Un'epoca in cui i lavoratori della Firestone erano protagonisti di dure lotte e vertenze. Oggi, invece, il futuro che si materializza vive un contesto economico, produttivo e conflittuale ben diverso. L'occasione è quella ideale per trascorrere insieme quasi tre ore e per farci raccontare i fatti, le opinioni e le riflessioni, osservare e cogliere diversi stati d'animo e comuni punti di vista. 


lunedì 10 giugno 2013

Riprendersi la fabbrica: Ri-Maflow!

Chi siamo

Siamo lavoratori e lavoratrici,studenti,attivisti e attiviste dei movimenti sociali, di difesa dei beni comuni, delle donne, convinti che occorra sollevarsi contro il capitalismo e la sua crisi, quella dei suoi politici e delle caste che lo difendono.Contro il suo interesse nel massimizzare il profitto, comprimere i diritti sociali, distruggere l'ambiente, causare guerre e povertà, pensiamo che le nostre vite valgano più dei loro profitti.

Vogliamo un altro mondo fondato sui bisogni e non sui profitti, alternativo all'autoritarismo, allo sfruttamento ed alla corruzione. Vogliamo una società fondata sulla democrazia radicale, la partecipazione e la giustizia sociale. Per questo "Servirebbe una bella botta, una rivoluzione" come ha detto il grande Monicelli.

venerdì 7 giugno 2013

E' il mercato, bellezza!

Leggo con vivo stupore l'urlo di dolore di Pasquale Natuzzi, imprenditore magnate dell'industria del divano, in un'intervista pubblicata sull'edizione on-line de La Repubblica di Bari. Tra una domanda innocua e l'altra, il milionario Natuzzi denuncia il dimezzamento del fatturato della propria impresa negli ultimi anni. Colpa della crisi, certo; ma non solo, secondo il Nostro.


Se parte della responsabilità è degli "asiatici", che secondo Natuzzi hanno "invaso" la nostra regione, facendo concorrenza spietata al made in italy grazie ai prezzi concorrenziali della merce, i veri "colpevoli", sarebbero, udite udite, i lavoratori messi in cassa integrazione dalla stessa Natuzzi. Ebbene sì: sarebbero stati assunti (a nero) dai famosi "asiatici", portando in dote con sé il know-how appreso durante gli anni di lavoro in fabbrica, permettendo agli "invasori" di produrre divani con uno stile simile.

Nel finale poi ci regala un dato: lui non ha mai licenziato nessuno dei suoi 2900 dipendenti. Peccato, appunto, che in cassa integrazione vi siano finiti quasi in 1600 e che in tutto 1800 rischino di finire per strada, dato l'annuncio della chiusura dello stabilimento di Matera e di quello di Ginosa (ma Foschini non lo sapeva, o forse non lo riteneva importante). 

Il problema, ed il paradosso, è che la Natuzzi ha già iniziato a delocalizzare la propria produzione, specie nel caso dei brand Leather Editions e Italsofa. E indoviante dove? Esatto, proprio in Cina. Tanto da aver persino ricevuto nei propri stabilimenti l'ambasciatore cinese in persona. Lo accolse con queste parole: "sono profondamente ammirato per il popolo cinese, per la sua dedizione e grande vocazione al lavoro, caratteristiche che hanno consentito di proiettare in poco tempo il proprio paese ai vertici economici ed industriali nel mondo". Che letto in versione tradotta dall'imprenditorese all'italiano significa, più o meno: in Cina i lavoratori hanno molti meno diritti dei nostri, e percepiscono un salario infinitamente più basso, cose che garantiscono un bell'incremento dei profitti dei padroni.

Insomma, la logica adottata da aziende asiatiche che producono illegalmente in Italia, trascinando qui cittadini cinesi trattati come schiavi, ha lo stesso principio che porta un'azienda nostrana a delocalizzare (legalmente) la produzione in un altro paese, lasciando per strada gli operai: il profitto. 

Chi paga è sempre il lavoratore, che sia europeo, asiatico o marziano. E lo si colpevolizza, se finito in cassa integrazione, dovendo mantenere una famiglia, si fa pagare da altri per le proprie conoscenze lavorative.