lunedì 16 dicembre 2013

Dicembre2009, Socrate migrante

Quattro anni fa l'occupazione dell'ex-liceo Socrate. Il racconto di quei giorni, le prime assemblee organizzative, le storie dei migranti tra persecuzione, coraggio e speranza...

Socrate Migrante
di Ornella Bellucci, da Il Manifesto
Dicembre 2009
A Bari seconda occupazione. Dopo il Ferrhotel, l'ex Socrate. 40 rifugiati somali cacciati dal centro di accoglienza e rimasti per strada occupano un ex liceo di proprietà del comune, chiuso dal 2005 perché dichiarato inagibile. Nella città di Emiliano l'emergenza casa parla africano

BARI - Per la seconda volta nel giro di due mesi l'emergenza abitativa a Bari spinge un gruppo di profughi africani a occupare uno stabile dismesso. Non in centro però, dove c'è il Ferrhotel di Trenitalia occupato da 40 somali, ma a sud della città, verso Poggiofranco. La notte tra il 15 e il 16 dicembre circa 140 di loro, tra cui eritrei, sudanesi, etiopi, hanno occupato la struttura su due piani che avrebbe dovuto ospitare la prima succursale del liceo Socrate, di proprietà del comune, dichiarata inagibile nel 2005 e perciò chiusa (salvo essere occupata di tanto in tanto dagli studenti per denunciare l'assenza di spazi sociali). Da qualche tempo a Bari le rivendicazioni per il diritto alla casa, prima di essere poste dai senza tetto stanziali (migranti e italiani), arrivano da loro. Sono tanti, ributtati in strada dopo il passaggio al Cara, e costretti dagli accordi di Dublino a restare temporaneamente nel territorio.
Gli occupanti dell'ex Socrate sono rifugiati politici, più alcuni richiedenti asilo. Molti vengono da precedenti esperienze di occupazione e sgombero a Milano. Sono organizzati. Gianni De Giglio, impegnato sul territorio nelle lotte per la casa e aderente alla Rete antirazzista, ricorda la vigilia dell'occupazione. «Il 15 dicembre hanno organizzato un sit-in sotto il comune. Hanno passato la notte lì in 40-50. Il giorno dopo una loro delegazione è stata ricevuta dal prefetto e dall'assessore comunale alla Pace e all'Accoglienza, i quali anziché fornire risposte concrete, hanno prospettato la possibilità di una sistemazione temporanea in tendopoli. Loro hanno rifiutato e hanno lasciato il presidio. Il pomeriggio si sono riuniti in assemblea, erano quasi 150, e la sera hanno occupato». L'assemblea si è tenuta nella sede della comunità eritrea residente a Bari, alla quale molti occupanti fanno riferimento. La mattina dopo ne hanno convocata un'altra, nella palestra della scuola. «Si sono contati, segnando i nomi su un registro. E hanno eletto un comitato di occupazione». Nelle assemblee si parlano tre lingue, perciò sono lente, ma molto partecipate. Il comitato ha poi smistato i nuclei familiari nelle 28 aule disponibili. Nelle più grandi ci sono gli uomini, 7-8 per stanza.

A poche ore dalla prima assemblea al Socrate, il comitato di occupazione ne convoca un'altra. «Per organizzare meglio il tutto, e per decidere rispetto alla proposta arrivata dal comune», che intanto in zona Fiera del Levante, lontano dal cuore della città, la tendopoli l'ha allestita. Dice per i senza fissa dimora, premendo però perché anche loro vi facciano capolino. Ogni tenda (sono sei, sette) può ospitare fino a 15 persone, per un totale di 90 posti letto. La tendopoli, gestita in collaborazione con la Croce Rossa, resterà in piedi 3 mesi. Così «gli occupanti dell'ex Socrate hanno deciso di rimanere uniti e compatti nella scuola».
La solidarietà del vicinato non è mancata. Una famiglia ha ospitato una diciottenne col figlio neonato. Altri si sono mobilitati portando coperte, cuscini, brande e taralli. Qualcuno ha dato loro parte dei suoi risparmi. Continua De Giglio: «C'è la pescheria, che mette a disposizione l'acqua». E poi c'è la Coop: «Lì vanno ai bagni, o se devono comprare qualcosa» .
A differenza dei somali del Ferrhotel, molti parlano l'italiano. Mentre, come loro, lavorano in nero. Puliscono i portoni, raccolgono olive o quel che c'è nell'hinterland barese, 'faticano' come benzinai. In questi giorni hanno incontrato gli occupanti dell'ex Socrate. Già «la mattina dopo l'occupazione gli hanno portato parte delle loro scorte. Tra queste, ramazze, scope, detersivi e pezze». Con alcuni eritrei che prima dormivano nei pressi della struttura Trenitalia già si conoscevano. Tra il Ferrhotel e l'ex Socrate ci sono circa 4 chilometri di strada. Molti occupanti del Ferrhotel quel giorno hanno raggiunto la struttura a piedi.
All'ora di pranzo l'ex Socrate si svuota. Resta un presidio misto all'ingresso, che compatta una trentina di occupanti. Gli altri si riversano nelle mense comunali. Quelle ufficiali sono due, e non garantiscono la necessaria assistenza. Ad esempio «la mensa del Caps, gestita da un'associazione che ha avuto finanziamenti dal comune, ha a disposizione 60 pasti giornalieri, però sono oltre 100 le persone che ogni giorno vanno a chiedere da mangiare». Accanto alle mense comunali, che nei giorni festivi sono chiuse, ci sono quelle delle chiese, che sono più numerose.

Testai è uno degli occupanti. Ha 23 anni, è eritreo. Nato e cresciuto ad Adi-Keih. È arrivato in Italia nel 2008. «Prima vai in Sudan, fai tutto Sahara e poi Libia, e da Libia to Italy». È la prassi. Poi c'è l'altra, altrettanto consolidata: «Un sacco di persone in Sahara muoiono, un sacco di persone. Spesso furgoni si rivoltano e i morti restano a terra». Anche Testai li ha visti, anche lui ha pagato per quell'orrore. Poi l'ultimo tratto del viaggio, dalla Libia a Lampedusa. «Su barca, tre giorni», 318 persone. Verso un'Italia che è un nuovo temporaneo orizzonte.
Nel centro di Lampedusa Testai viene trattenuto una settimana. Poi è spedito al Cara di Bari in aereo, con altre 45 persone. Ha lasciato l'Eritrea mesi fa, «perché c'è problemi con Etiopia». E se anche i due paesi non sono in guerra, «però governo di Eritrea è dittatoriale, e quindi si non obbedisce tu vai galera». Ha due fratelli Testai. Il più grande, per aver disobbedito, sta scontando 10 anni di carcere. «Io ero soldato per governo. Quando tu diventi soldato, per due anni non ti fanno vedere famiglia. Dopo io ho disertato, perché non volevo fare più il militare, non volevo più essere soldato». Ha dovuto lasciare il paese: «In Eritrea era difficile salvare vita, a causa del governo». La commissione gli ha riconosciuto l'asilo politico, e ora è in attesa dei documenti. Quelli di cui è in possesso sono provvisori. Testai è un caso Dublino. Tempo fa ha tentato di lasciare l'Italia ma è stato fermato in Inghilterra, identificato e rispedito al Cara di Bari. Prima di occupare l'ex Socrate si arrangiava in strada. Oggi non riesce a trovare lavoro. «Io ho bisogno di lavoro, ma come faccio se non ho casa, come faccio?». Gli chiedo cosa pensa dell'occupazione. «Non avevamo scelta», dice, «comune ci deve permettere di avere casa».

Saba ha 37 anni. Viene da una città dell'Eritrea che si chiama Menderiera. Vive in Italia da 5 anni e 5 mesi. «In mio paese c'è guerra, sempre guerra. Prima con Etiopia, poi con Tigray. Poi ora le corti impediscono di fare vita normale». Quando ha lasciato l'Eritrea Saba aveva 16 anni. È arrivata con la famiglia in Sudan, dove ha lavorato per 17 anni. «In casa di arabi, pulire, lavare, stirare, tutto». I genitori e la sorella sono tornati in Eritrea mentre Saba ha proseguito per l'Italia. «Io scappata da Eritrea perché c'era guerra. Scappata da Sudan perché cominciava guerra. E poi io non sta bene con sudanesi, no paga bene; poi io cristiana, loro musulmani». Saba scappa dal Sudan. «Con macchina, tutto Sahara. Loro ti porta e tu paghi. Venti giorni senza acqua, senza mangiare. Tanti morti». Dopo il Sahara la Libia. Dove Saba ha cercato lavoro, perché non aveva i soldi per proseguire il viaggio. Senza però trovarlo. I soldi glieli ha prestati un'amica e si è imbarcata per l'Italia. Saba non ha provato il carcere libico, ma suo nipote, che occupa l'ex Socrate, sì. «No sta bene in Libia. Adesso lui finito due anni carcere, senza motivo». Un altro ragazzo che è lì, Bereket, lo stesso. «Quando io entrato in Libia da Sudan la polizia mi porta in carcere con altri. Perché documenti nostri non validi in Libia». Bereket è stato nel carcere di Seikit due mesi e due settimane. Erano 100 persone in un recinto di ferro. «I poliziotti picchiare sempre, giorno e notte. Con mani, così, anche con bastone, cinture, con calci, con tutto». Si ferma: «Ci passa piatto con cibo sotto cancello. Da uno mangia 7 persone, e da bere acqua e sale. E poliziotti ci deruba, ci toglie tutto».

Fars è etiope, di Adis Abbeba. Diciannove anni a gennaio e sei mesi scontati da minorenne nel carcere libico di Binkasi. «Polizia dice: se ci date soldi, vi facciamo uscire. Quando io uscito, 100 denari pagato». E non è stato semplice. «Loro ci faceva uscire per lavorare e poi veniva e prendeva soldi». Il lavoro era in strada. «Con carriola, trasporto spesa libiani e loro dare mancia». Fars ha dovuto mettere insieme molte mance per tentare di arrivare alla quota. «Polizia prende un poco ogni giorno. Quando facevo più soldi li rubava, e ne vuole ancora». Ma Fars non poteva farcela. E allora come ha saldato? Sorride Fars: «Un giorno vado a lavorare e io non tornare». Bereket, invece, «io pagato 700 denari polizia».
Gli intervistati sono rifugiati politici. Al momento non lavorano. Saba non è in buone condizioni, è stata operata da poco a un femore: «In campo, persona straniera viene e tira calci. Forse vuole lavoro». Neppure Bereket riesce, e neanche Fars: «Io da quando uscito da Cara sono 8 mesi aspettare casa».
Chissà che pensava di trovare in Italia Fars, in fuga dall'Etiopia. Chissà se si era rappresentato come possibile una convivenza con degli eritrei: «Sì però prima c'è guerra con Eritrea, ora no». Ma nel suo paese non c'è libertà. «Io Oromo», gruppo etnico maggioritario in Etiopia. «Io fare parte di partito Oromo, come Italia partito di sinistra. Partito Oromo lotta per libertà», perché in Etiopia «ancora no puoi parlare, no puoi denunciare crimini governo». Anche sua madre era militante del "partito Oromo", cioè del Movimento federalista democratico Oromo, accusato di sostenere il Fronte di liberazione Oromo. «Poi la sera venuta polizia, dice: domani tu vieni ufficio». Era sospettata di aver fornito sostegno economico al Flo, e quindi al terrorismo. «Ma lei non è andata, no lasciato me, polizia poteva uccidermi, e noi scappati insieme». L'accusa di terrorismo è molto frequente in Etiopia. Viene usata dalle autorità per mettere a tacere qualsiasi forma di opposizione o di critica alla persecuzione degli Oromo.
Sono andati in Sudan, per un mese. La madre è rimasta lì per una malattia che le impediva di muoversi, Fars ha proseguito il viaggio. Ha attraversato il deserto, poi la Libia e infine è giunto in Italia. Prima a Lampedusa e poi al Cara di Borgo Mezzanone, nel foggiano. Ma poiché era ancora minorenne è stato affidato al centro di accoglienza San Giuseppe, gestito da una onlus. Si trova a Borgo Tre Santi, a Cerignola. «Al centro noi 50 ragazzi: etiopi, albanesi, ghanesi, eritrei, kosovari. Se fai il bravo, ogni 15 giorni puoi uscire. Oppure no». Quando ha compiuto 18 anni è stato trasferito dal San Giuseppe al Cara di Borgo Mezzanone. Lì Fars ha fatto richiesta di asilo politico e ora è rifugiato.

L'edificio occupato ha l'allaccio dell'acqua grazie a una cisterna e della corrente grazie a un
generatore autofinanziato. Questo permette l'utilizzo dei bagni.

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